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La vera sfida del referendum sulla Costituzione

Smaltito il risultato delle imminenti elezioni amministrative nelle grandi città, il dibattito politico sarà, inevitabilmente, assorbito, in larga misura, dal referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Per la seconda volta – se escludiamo la riforma del 2001, limitata al decentramento regionale – viene sottoposta agli elettori un’ampia revisione della seconda parte della Carta fondamentale, dopo i quattro passaggi parlamentari previsti dall’art. 138.

La prima volta, nel 2006, il referendum pose la pietra tombale sulla riforma varata dalla maggioranza di centrodestra, nel corso della XIV legislatura (2001-2006), che innovava sensibilmente il testo originario, rispetto a diversi ambiti, dal bicameralismo alla forma di governo, dalla Corte costituzionale ai poteri regionali. Il mancato assenso dell’opposizione di centrosinistra in sede parlamentare costituiva il punto debole di quel tentativo di riforma, che fu poi sottoposta al giudizio popolare, quando ormai la coalizione che l’aveva promossa era stata sconfitta alle elezioni politiche dell’aprile 2006 e la sinistra, che l’aveva invece duramente contrastata, era tornata in maggioranza e al governo del Paese. Il nuovo clima politico – e, forse, anche la debole difesa da parte di un centrodestra un po’ demotivato, durante la campagna referendaria – favorì la bocciatura della riforma da parte del corpo elettorale.

Memore della sorte ingloriosa di quel laborioso disegno di riforma, il premier Matteo Renzi ha assegnato alla consultazione referendaria la valenza di una sorta di Giudizio universale, prospettando addirittura il proprio ritiro dalla vita politica, in caso di esito negativo. La riforma si inserisce così nel quadro della conflittualità contingente tra renziani e sinistra interna del Pd, condiziona i delicati rapporti tra tale partito e gli alleati di maggioranza, diventa terreno di scontro con le opposizioni, non tanto sui contenuti della riforma stessa, ma soprattutto nella prospettiva di un rafforzamento significativo del premier o, viceversa, della possibile battuta d’arresto della sua fase ascendente.

Si è giunti, quindi, alla Grande Riforma, tanto auspicata e fin troppo differita nel corso degli anni, con una sorta di “drammatizzazione” del confronto politico e legandola ai tatticismi contingenti. Proprio quello che non ci voleva, rispetto ad un passaggio così delicato, anche perché, dopo settant’anni, una revisione così ampia della Carta si presume destinata a durare a lungo, trascendendo il quadro storico del momento, con un respiro che dovrebbe spingersi oltre le implicazioni della presente disfida renzismo-grillismo-leghismo, con annessi e connessi. Questa sensazione, volutamente indotta, di un plebiscito su Renzi, in sede di referendum, potrebbe dirottare l’attenzione dei cittadini dal merito delle innovazioni costituzionali alla preoccupazione degli effetti politici immediati. Con il prevedibile risultato di una polemica, in sede referendaria, finalizzata soprattutto alla resa dei conti tra le parti contrapposte.

Ben altro iter fu adottato dai padri costituenti, in un’epoca, in cui, peraltro, le contrapposizioni si rivelavano ben più esasperate ed inquietanti, dato il contesto storico e internazionale. Eppure, nonostante le siderali distanze ideologiche dell’epoca, si dimostrarono in grado di adottare un testo percepito come patrimonio comune dei partiti rappresentati alla Costituente. Lo scenario da resa dei conti che è stato cucito addosso alla procedura di revisione costituzionale ha scoraggiato, inoltre, un proficuo impegno di correzione e miglioramento della riforma, nel corso del dibattito parlamentare. Nel testo approvato da Camera e Senato, al di là di innovazioni lodevoli (in particolare, il voto di fiducia limitato ad una sola camera, la riduzione dei senatori, il riequilibrio delle funzioni tra Stato e Regioni, il superamento della doppia approvazione delle leggi in identico testo), quella farraginosità e complessità delle procedure legislative che caratterizzavano la bozza originaria non ha registrato un sensibile miglioramento, né una convincente semplificazione.

Il Senato è diventato un ibrido sovrappeso, delle cui nuove funzioni non si comprende l’utilità. La contestuale lettura del nuovo testo costituzionale e della legge elettorale approvata in questa legislatura (Italicum), alimenta, inoltre, la sensazione di un eccessivo rafforzamento dell’esecutivo (e del premier “quasi eletto”) rispetto al Parlamento e agli altri contrappesi.

È comprensibile l’aspirazione ad una certa rapidità dell’iter di discussione e di approvazione della riforma, considerando i precedenti trent’anni di inconcludenza, ma anche la fretta eccessiva – come la mancata condivisione con la minoranza – può diventare un limite, precludendo opportune riflessioni ed integrazioni.


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