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Vi racconto qualche Primo Maggio da sindacalista Cgil

Lavoro cassimatis, GIULIANO CAZZOLA

Durante la mia lunga attività sindacale (a cui va aggiunta un’appendice di militanza politica) ho svolto centinaia di comizi. Oggi, questo è un genere di comunicazione superato, anche se i leader sindacali non lo hanno ancora dismesso del tutto. Fare comizi e farli con successo non è facile. Non basta essere bravi oratori. Occorre anche stabilire un rapporto di transfert con i lavoratori e i cittadini che partecipano alla manifestazione, i quali devono sentirsi predisposti a condividere quelle reazioni che l’oratore intende trasmettere loro. Ovviamente bisogna sollecitare, magari con un pizzico di demagogia, le corde sensibili di chi ascolta.

Ho avuto la fortuna di conoscere e lavorare con dei grandi sindacalisti. Luciano Lama, ad esempio, nei comizi era un oratore straordinario, mentre Bruno Trentin ‘’rendeva’’ di più quando interveniva nelle assemblee, nei convegni o nelle riunioni degli organismi dirigenti. Lo stesso confronto potrebbe essere fatto tra Pietro Nenni e Riccardo Lombardi o tra Pietro Ingrao ed Enrico Berlinguer. Ma questi sono paragoni che hanno poco senso. Essere oggi un buon oratore ‘’da comizio’’ servirebbe molto meno che saper stare in tv e ‘’bucare’’ lo schermo incalzando gli avversari con qualche battuta efficace di pochi minuti. L’avvento del sonoro condannò ad un inesorabile declino molti celebri divi del cinema ‘’muto’’ (chi non ricorda il film ‘’Viale del tramonto?). Così è successo pure con la comunicazione politica.

Tornando al tema, di comizi in occasione della Festa del Lavoro ne ho tenuti certamente meno, anche perché il 1° Maggio viene una sola volta all’anno. Ne ricordo in particolare due. Il mio primo ‘’1° maggio’’, innanzi tutto. Avevo appena 24 anni (era il 1965) e lavoravo nel sindacato (la Fiom di Bologna) da pochi mesi. L’organizzazione mi mandò a tenere il comizio a S.Pietro in Casale, un piccolo Comune, prevalentemente agricolo, della pianura bolognese, dove abitavano, peraltro, alcuni lontani parenti della mia famiglia. Quella circostanza – essere oratore ufficiale della Cgil nel loro paese – mi riempiva d’orgoglio. Ricordo che mi accompagnò mio padre, con la sua auto. Arrivammo, per precauzione, in largo anticipo; tanto che dovemmo aspettare alcune ore che il responsabile della Camera del Lavoro aprisse i battenti (ebbi l’impressione che si fosse rinchiuso dentro i locali con la segretaria); e si decidesse a montare, in fretta e furia, gli altoparlanti su di un palco improvvisato. Dei miei parenti nessuna traccia. Ben presto compresi il perché: sui manifesti che annunciavano il nome dell’oratore stava scritto CAZZOLI EMILIO.

Come Dio volle, alla fine declamai il discorso – che avevo preparato con tanta cura, come se dovessi parlare sulla Piazza Rossa – alla presenza di una ventina di persone, riunite a debita distanza, nella piazza principale. Fu una delle ultime cose che mio padre ed io facemmo insieme, perché lui morì il 9 giugno di quello stesso anno (ovvero 40 giorni dopo). L’altro comizio che ricordo lo tenni a Santiago del Cile nel 1982, durante la dittatura di Pinochet (nel corso di una missione che mi portò anche in Argentina, Uruguay e Brasile). Ovviamente, parlai alla manifestazione che la coordinadora dei sindacati svolgeva, nonostante il divieto del regime. In quegli anni duri, il sindacato aveva un po’ più di agibilità dei partiti politici ed era, in pratica, un punto di riferimento delle opposizioni al regime. Ogni anno, in occasione della Festa del Lavoro, la Cgil inviava qualche dirigente in Cile, come espressione di solidarietà con i lavoratori oppressi ma anche come forma di ‘’protezione’’ dei movimenti democratici, dal momento che, in generale, le forze della repressione cercavano di evitare complicazioni internazionali, se di mezzo c’era qualche sindacalista straniero.

Parlai in una grande sala davanti a circa duemila persone. Il funzionario dell’Ufficio internazionale della Confederazione che mi accompagnava aveva tradotto in lingua spagnola il discorso da me preparato. Poi in albergo (eravamo davanti al Palazzo della Moneda, dove avevano assassinato Salvador Allende) mi aveva insegnato a leggerlo correttamente, riscrivendo le parole nel modo in cui dovevano essere pronunciate. Ricordo che feci una bella figura, in mezzo a quella gente che era venuta lì rischiando la galera e forse anche qualcosa di più. Fuori, infatti, la Polizia caricava i dimostranti e sparava bombe lacrimogene. Il mio discorso fu trasmesso in diretta dalla Radio dell’Arcivescovado, che appoggiava le opposizioni democratiche. Quando, nel pomeriggio, andai a fare visita all’ambasciatore italiano (i nostri funzionari avevano svolto un ruolo eroico durante il golpe dei militari dieci anni prima, riuscendo ad ospitare nei locali dell’ambasciata e a mettere in salvo, poi, decine di oppositori), il quale mi chiese se conoscevo lo spagnolo.

Che altro dire? Quando penso a quegli avvenimenti, mi torna in mente questo brano: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. E’ l’incipit di un libro bellissimo: ‘’Cent’anni di solitudine’’ di Gabriel Garcìa Màrquez. Una bella storia latino-americana. Dicono che, in punto di morte, passino davanti agli occhi delle persone alcune immagini della loro vita. Io non avrò l’onore di un plotone d’esecuzione. Probabilmente mi toccherà un’agonia fatta di pannoloni e di demenza senile. Se sarò lucido, quando verrà il momento di rivolgere a Dio la preghiera di chi sta per restituire le spoglie alla terra (nunc dimittis servum tuum, domine), ricorderò senz’altro quei due ‘’1° Maggio’’, che tanto significarono per me. E ricorderò che da bambino, in un pomeriggio a cavallo tra la fine dell’inverno e l’avvento della primavera, mi aggiravo, solo soletto, nel cortile di via Frassinago, dove la mia famiglia abitava, confinata in una sola stanza, nell’immediato dopoguerra. Il mio amico Andrea non era ancora sceso o forse non era in casa. Mio padre uscì per andare al lavoro. E dalla loggia si fermò a salutarmi. La sera si presentò a casa con un Topolino (quello di Walt Disney) che scendeva da un asticella di legno, grazie ad un congegno meccanico nelle gambe. Disse che la mia solitudine di quel pomeriggio lo aveva commosso.

E’ proprio vero: come scrive Màrquez, “chi ha vissuto cent’anni di solitudine non avrà un’altra occasione nella vita’’.

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