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Lodovico Festa: perché voterò Stefano Parisi a Milano

Lodovica Festa

Formiche.net ha chiesto a due intellettuale di Milano (Piero Borghini e Lodovico Festa) come voteranno domenica 19 giugno al ballottaggio per Palazzo Marino. Ecco di seguito la dichiarazione di voto di Festa; qui quella di Borghini.

Domenica 19 giugno voterò Stefano Parisi sindaco di Milano invece di Beppe Sala, innanzi tutto perché il primo si presenta, e presenta un programma, da leader di una comunità mentre il secondo si propone nel ruolo essenzialmente dell’esecutore, tanto che addirittura nei confronti diretti vorrebbe portarsi dietro quello che “sa” di politica cioè Pierfrancesco Majorino.

Non è questione solo di esperienza: vi sono persone che vengono dal cosiddetto mondo del fare che sanno modificare le proprie attitudini e comprendere come il ruolo di sindaco non consista solo nel risolvere tecnicamente problemi ma in quello di rappresentare e curare il consenso dei cittadini. Pensate, per esempio, a come Michele Emiliano ha svolto il suo impegno di guida dell’amministrazione di Bari.

Giuliano Pisapia, dalla sua, è stato espressione della sua comunità. Peraltro, poi, ha fallito (e in parte rilevante  – tasse, città metropolitana, sicurezza – per una sostanziale subalternità al governo nazionale) al punto da non ripresentarsi per il secondo mandato di sindaco.

Un leader è fondamentale per una città come Milano che può disegnare adeguatamente il proprio destino solo se ha un certo grado di autonomia (non di contrapposizione, sia chiaro) dal governo centrale, ed è prezioso anche per riuscire ad allineare alleati che in una fase così di crisi della politica italiana potrebbero provocare forzature siano queste ispirate da pulsioni xenofobe o da fratellanze musulmane.

Sala, anche solo ascoltando quello che dice, non appare persona che voglia rappresentare e sia in grado di guidare la sua comunità, e quindi avrà difficoltà anche ad amministrarla. I suoi obiettivi più chiaramente conclamati e gli unici che non sembrano presi sulla scia dello sfidante – dall’ospitare il G7 alla gestione del dopo Expo, dall’appello ai prefetti sugli immigrati all’affidarsi alla scellerata legge Del Rio sulle città metropolitane – lo indicano come un sostanziale esecutore del governo Renzi. Come, d’altra parte, ha detto il candidato stesso del centrosinistra: “Io sono un tecnico che faccio comodo ai politici perché risolvo problemi”.

E’ la chiara ammissione di una persona cresciuta senza reale partecipazione e interesse alla vita politico-sociale: è arrivato persino a dire -per liberarsi dall’accusa di essere stato ben poco di sinistra nei suoi ruoli dirigenziali alla Pirelli- che pur essendo uno dei manager di punta di quella società negli anni ’80, non sapeva quel che facesse il segretario dei chimici della Cgil di allora, Sergio Cofferati che oggi lo accusa di scarsa trasparenza politica. D’altra parte il fatto di non avere veri interessi e reali attitudini alla leadership cittadina aveva fatto sì che Sala sostanzialmente fallisse come City manager di Letizia Moratti. E oggi gli impedisce di rendersi conto come il suo ruolo a Palazzo Marino non possa essere quello puramente dell’esecutore. La capacità di guidare una città strategica come il capoluogo lombardo non è assimilabile a quella pur encomiabile di tirare su stand e organizzare code per una grande, formidabile, utilissima fierona internazionale come l’Expo.

Infine, osservo come il “caso Sala” non costituisca una vicenda isolata ma sia espressione di una tendenza che considera la politica democratica quasi un impaccio allo sviluppo economico, da svuotare nel medio periodo, via competenze tecniche.

La complessità della globalizzazione, la sofisticazione dei mercati finanziari, l’impetuoso sviluppo tecnologico (compresi quello di armamenti che consentirebbero man mano di rinunciare alla politica estera) e anche le molteplici esigenze dei processi di urbanizzazione spingerebbero a limitare la politica all’osservanza del politicamente corretto mentre le reali decisioni toccherebbero di fatto solo a poteri neutri (nonché a quelli economici) da sottrarre sostanzialmente alla dialettica democratica.

C’è chi di fronte a certe turbolenze sociali e politiche di oggi, evoca gli anni Trenta e parla di pericoli fascisti: un’analisi che considero radicalmente sbagliata. I rischi di involuzione totalitaria nascono da una guerra non dalla fine di una guerra come quella civile europea chiusa dal collasso del comunismo sovietico nel 1991.

Mi sembra invece che noi si stia vivendo un’epoca molto simile a quella fine Ottocento-inizi Novecento con la crisi dell’Unione sovietica prima e di quella europea poi che ricordano molto quelle dell’impero ottomano, di quell’asburgico e di quello zarista; con l’egemonia britannica sul mondo che si considerava insostituibile come avviene in questi anni con gli Stati Uniti; con la deriva di un equilibrio internazionale definito dal Congresso di Vienna simmetrica alla fine dell’ordine fissato con il Patto di Yalta; con una quasi speculare fiducia nel progresso che avrebbe risolto automaticamente tutte le tensioni che scuotevano e scuotono le società moderne.

In realtà l’umanità nella sua incessante attività di ricerca di senso continua e continuerà a produrre conflitti che, se non sono regolati dalle pur imperfette e recenti modalità offerte dalla democrazia liberale, non possono che finire per imboccare l’altra via per risolvere le contraddizioni praticata sin dall’antichità: la guerra. Il tragico esito determinato appunto dai cantori del progresso “definitivo” dell’inizio dell’altro secolo.

E’ proprio partendo da questa considerazione che ritengo come anche nell’occasione molto locale di un voto per le amministrative, sia opportuno sostenere chi ha un’idea di allargamento della democrazia piuttosto che chi pensa a una sua contrazione “tecnica”.

Al punto di allearsi persino con Lucifero? Forse fino a quel punto.


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