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Machiavelli spiegato da Michael Ledeen

Michael Ledeen è un uomo che, in Italia, in un ambiente giornalistico pigro e abituato al conformismo e agli schemini precostituiti, è a volte accompagnato da una surreale letteratura giallo-noir. Dico subito che, a mio personale avviso, si tratta invece di uno dei maggiori intellettuali viventi, di un autentico punto di riferimento.

In gioventù allievo di Renzo De Felice e interlocutore – appunto con De Felice – della celebre “Intervista sul fascismo”, Ledeen si è poi espresso, nel corso dei decenni, sia come autore di numerosi libri e pubblicazioni, sia come animatore (prima presso l’American Enterprise Institute, poi presso la Foundation for Defense of Democracies) di iniziative culturali di respiro, con l’ambizione di “leggere” la realtà e proporre come bussola i valori della libertà e della democrazia. Non ha mai smesso di gettare lo sguardo sulla realtà italiana; ammonisce sulla fragilità e sulle debolezze dei sistemi politici occidentali; ma soprattutto non si stanca (in particolare – ma non solo – rispetto all’Iran e ad altri regimi autoritari) di chiedere che il nostro Occidente non rinunci alla promozione globale della democrazia, al rovesciamento delle dittature, al sostegno alle opposizioni e ai dissidenti.

Tra i suoi molti libri, mi sembra più che mai attuale il recupero di un saggio su Machiavelli, che Ledeen rilegge e ripropone sotto forma di guida ai potenti di oggi. Diciamolo subito: Machiavelli è, da cinquecento anni, il grande incompreso, il grande travisato, il grande manipolato, sia dalla storia sia dalla storia della letteratura. Un solo esempio? Generazioni di studenti si sono sentiti ripetere a scuola la frase “il fine giustifica i mezzi”, e tuttora ignorano che quella frase, nel “Principe” di Machiavelli, semplicemente non esiste. Al contrario, esiste un intero capitolo dedicato alla differenza tra la conquista del potere avvenuta, attraverso la virtù, e quella (spesso rovinosa, ammonisce Machiavelli) avvenuta attraverso la violenza o il caso. Ma tutto ciò, per troppi, non ha diritto di cittadinanza culturale: e, non solo in Italia, un’ombra di sospetto aleggia da sempre su Machiavelli, in contrapposizione alla generale esaltazione di Guicciardini, quello del “particulare”. E forse, per tanti versi, sta proprio qui una delle tare che da secoli affliggono la nostra storia nazionale. Ma non divaghiamo.

La cornice, l’architettura logica della rilettura di Machiavelli da parte di Ledeen è chiara e insieme dolorosa. Gli uomini, da sempre, sono più inclini al male che al bene e lo dimostrano appena ne hanno l’opportunità. Sono guidati da un’ambizione smisurata e dalla droga del potere, che non lascia mai soddisfatti; i sistemi politici sono naturalmente fragili; la stabilità esiste solo nelle tombe; la regola – al contrario – è il cambiamento costante delle cose. Ergo: occorre essere pronti a mutare metodi e percorsi, avere una strategia di adattamento ai diversi contesti (e alle diverse culture nazionali e territoriali) e bisogna sapere che una medesima tattica può essere vincente in una circostanza e drammaticamente perdente se il contesto muta. Di più: chi ha ambizioni di governo deve tenere a mente che la dimensione “ordinaria” non è – purtroppo – la pace, ma il combattimento: se non lo si comprende, se non si è pronti a una guerra reale o potenziale, è altissimo il rischio di essere schiacciati e dominati, dalle cose e dagli avversari. Il problema è che i leader – allora come oggi – solo raramente hanno virtù sufficiente per accettare la medicina dolorosa indicata da Machiavelli.

In un libro che è un mare di spunti e di riflessioni, seleziono in particolare sei aspetti.
Esistono, nella vita e nella storia, anche circostanze e fattori che non possono essere controllati. Machiavelli, grande giocatore di carte (come si sa, una delle sue pagine più intense e commoventi, al tempo della sua cacciata dal governo, è quella in cui descrive la sua giornata, per metà trascorsa a giocare a carte in bettole e taverne, e per l’altra metà, la sera, a scrivere e a coltivare in solitudine la parte più nobile di sé), sa che il gioco riproduce la competizione feroce che è propria della vita reale. In entrambi i casi occorre agire e non subire e bisogna saper sfruttare aggressivamente un’eventuale circostanza propizia. E tuttavia, nonostante un’intensa preparazione e il massimo sforzo, ciò che si è fatto può non bastare: il potere della sorte è a volte soverchiante e occorre prenderne atto, senza piagnistei, e – anche da sconfitti – con ironia e civiltà.

Oltre al lato pubblico, anche (e per certi versi soprattutto) il lato privato può costare carissimo al Principe e a ognuno di noi. I vizi personali, le tendenze alla pigrizia o all’arroganza o alla dissolutezza, e – peggio di ogni altra cosa – la propensione ad autoassolversi sono una costante minaccia.

Anche una vittoria può essere rischiosa, perché produce rilassatezza. Da questo punto di vista, la condizione di pace accresce i pericoli, perché sembra rendere la disciplina meno urgente, e questo può far soccombere il Principe. Invece la sua battaglia deve continuare senza sosta, in due sensi: da un lato, per evitare che i nemici lo buttino giù, e dall’altro per evitare che i suoi stessi vizi gli facciano del male. Ecco perché servono virtù e disciplina. Perciò, le virtù militari (freddezza di giudizio, attenzione al mutare delle situazioni, coraggio, dedizione alla missione) sono massimamente importanti anche in tempo di pace.

Ledeen dedica pagine da incorniciare a “Prova d’orchestra” di Fellini, esempio di una tendenza allo sfascio che è propria anche delle anime e degli spiriti più dotati. Ma, se si rifiuta un ordine ragionevole, il rischio è quello – prima o poi – di subire una tirannia piena. Per converso, quindi, i profeti disarmati sono destinati a non farcela. Un leader deve essere pronto ad accettare e ad assumersi responsabilità anche terribili.

Talvolta, il Principe deve essere disposto a “entrare nel male”. Non a essere malvagio, non a “essere” il male, ma a “entrarvi”, per uscirne appena possibile. Ci sono circostanze in cui il “male necessari” non può essere evitato. Ledeen ha mano felice nel citare le celebri pagine di Churchill dedicate al fatto che le democrazie debbano adottare comportamenti “adeguati” a quelli dei loro nemici e interlocutori. Fu vero negli anni Quaranta contro il nazismo, ammonisce Ledeen, e – a mio personale avviso – dovrebbe essere ancora più vero oggi contro il terrorismo islamista. Davvero qualcuno pensa di poter agire con strumenti “ordinari” contro chi ha un intento assoluto e definitivo di distruzione della nostra civiltà?

Da ultimo, Ledeen scrive pagine da incorniciare su uno dei maggiori pericoli che possano corrodere uno Stato, una comunità: la corruzione. Se passa nel popolo l’idea che i leader siano corrotti, tutto si sfascia in modo irreversibile, e perfino beni di per sé supremi (come la libertà di espressione, di riunione, eccetera) finiscono per divenire gli strumenti tecnici dello sfascio. Sia le pagine di Machiavelli, che le annotazioni di Ledeen, sono di bruciante attualità per le democrazia occidentali dei nostri giorni. Se la corruzione fu capace di corrodere e distruggere un gigante come l’Impero ottomano, figurarsi cosa possa fare alle nostre fragili democrazi. Contro il rischio dello sfascio assoluto, a quel punto, il paradosso machiavelliano è che possa rendersi necessario il potere di un uomo solo. Intendiamoci bene, spiega Ledeen, Machiavelli non ama affatto i tiranni. Non ha perso fede nella democrazia, in una buona repubblica. Ma possono esserci circostanze in cui il male minore sia una temporanea situazione autoritaria, per restaurare appena possibile la libertà. Esempi? Il ruolo di Mosè nell’antichità. O, per venire al Novecento, il ruolo del generale Mac Arthur in Giappone, o il significato di denazificazione che ebbe il Processo di Norimberga. Dice Ledeen: “Semmai, l’errore dell’Occidente è avvenuto cinquant’anni dopo, alla fine della Guerra Fredda, quando non si ebbe il coraggio, alla caduta dell’impero sovietico, di imporre una “condanna” altrettanto forte e simbolica, che avrebbe forse meglio affermato i valori della libertà e della democrazia”.

Le pagine finali del volume sono le più dolorose per i lettori italiani. Ledeen ricorda come nacque il Principe. Machiavelli vedeva l’Italia di allora divisa e decadente, e sperava in un Principe che potesse compiere il miracolo di prendere e reggere il timone: il suo libro era, insieme, un auspicio e una guida, in quella prospettiva. Quel principe non arrivò, come si sa. Cinquecento anni dopo, annota Ledeen, le cose non appaiono molto diverse, purtroppo.

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