Non è un caso che a saltare per prime in Italia, dopo la vittoria della Brexit nel referendum inglese, siano state le borse e la riunione della direzione del Pd, programmata per una “riflessione” sui pessimi risultati delle elezioni amministrative e rinviata genericamente alla settimana prossima. Genericamente, perché l’agenda internazionale del presidente del Consiglio e segretario del partito, fra incontri bilaterali e vertici a tre, cui potrebbero seguirne altri ancora più larghi, potrebbe rendere sempre più difficile a Matteo Renzi trovare un giorno, se non addirittura un’ora davvero libera per occuparsi di problemi non strettamente legati agli impegni di governo. E al proposito dichiarato di “rifare” l’Europa “più umana e più giusta”.
Ciò potrebbe dare naturalmente la stura ai critici e avversari di Renzi per riproporre l’argomento, già affiorato prima delle elezioni amministrative, dello sdoppiamento delle sue due cariche, di partito e di governo. Ma sarebbe pure esercizio accademico, peraltro ridicolo perché sproporzionato rispetto alla gravità della situazione non più nazionale ma internazionale, sopraggiunta ad eventi imprevisti come la pur già temuta uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
Renzi non ha alcuna voglia, e alcun interesse, ad aprire in questo momento una questione così spinosa come una successione al vertice del partito. Una questione peraltro che non potrebbe non passare da una modifica dello statuto e dalla scadenza congressuale. Se ne rende conto anche una parte della stessa minoranza del Pd, visto il rifiuto, per esempio, di Gianni Cuperlo, già concorrente di Renzi alle ultime primarie e successivo congresso, di cavalcare il tema del doppio incarico.
Il fatto è che il quadro europeo, e più in generale quello internazionale, allontana dall’attualità i problemi interni del partito del presidente del Consiglio. Chi non lo capisse, si chiamasse pure Massimo D’Alema o Pierluigi Bersani, per non parlare delle loro comparse, sarebbe davvero uno sprovveduto. E non farebbe onore al suo passato, fatto non solo di beghe di partito ma anche di importanti ruoli di responsabilità svolti al servizio del Paese.
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La stessa scadenza autunnale del referendum sulla riforma costituzionale, che a botta calda ha fatto immaginare una Rexit, intesa come possibile uscita di Renzi dalla scena politica in caso di sconfitta, sta assumendo via via altri aspetti, e altre dimensioni.
Non ha torto Claudio Cerasa, il direttore del Foglio, a scrivere che quello di ottobre sta diventando, se non è già diventato, dopo la tempesta scatenatasi in Europa con la Brexit, un referendum non tanto sulla riforma costituzionale o sulle sorti personali di Renzi quanto “sulla stabilità dell’Italia”.
In effetti, se la riforma costituzionale dovesse essere bocciata e si aprisse una crisi di governo, il Paese non apparirebbe soltanto, ma sarebbe allo sbando. Con quali effetti nei rapporti internazionali e –se permettete- nelle borse, e quindi nelle tasche di ogni italiano, è facile immaginare, vista peraltro la rapidità con la quale si sono mossi sull’onda della Brexit i soliti voraci speculatori finanziari. Che hanno ripreso a giocare con i titoli del nostro debito pubblico, cioè con i nostri titoli di Stato, come nel 2011. L’anno in cui molti italiani scoprirono lo “spread”, cioè il differenziale fra i nostri titoli e quelli tedeschi, con i conseguenti, mostruosi effetti economici, e non solo con il cambio di guardia a Palazzo Chigi fra Silvio Berlusconi e Mario Monti, cioè fra la politica e la tecnica. Un passaggio che ben pochi rimpiangono, anche fra quelli che lo salutarono, in buona fede, con maggiore soddisfazione o fiducia.
Dove invece penso che Cerasa abbia meno ragione, o sia troppo ottimista, è il terreno che, alla luce delle sopraggiunte difficoltà, è tornato a proporre: quello di un sostanziale ritorno di Renzi e di Berlusconi al famoso patto del Nazareno, infrantosi rovinosamente l’anno scorso contro lo scoglio della successione a Giorgio Napolitano sul Quirinale. Una successione alla quale Berlusconi riteneva, non a torto, di dovere essere coinvolto, proprio nella prospettiva della riforma costituzionale e della legge elettorale cui sui era nato quel patto, ma che Renzi volle decidere praticamente da solo, facendo prevalere più le ragioni interne di partito che quelle esterne con la soluzione del pur ottimo Sergio Mattarella. Di cui davvero imprudentemente il presidente del Consiglio e i suoi amici vollero sottolineare e ricordare, fra i vari indiscutibili meriti, anche quello delle “coerenti” dimissioni da ministro opposte negli anni Novanta, ai tempi del penultimo governo di Giulio Andreotti, alla riforma del sistema radotelevisivo che legittimava le tre reti dell’allora Fininvest berlusconiana.
Renzi e i suoi amici dimenticarono che quella decantata “coerenza” di Mattarella fu poi contraddetta da un referendum popolare –ripeto, referendum popolare- che sancì la legittimazione delle tre reti televisive di Berlusconi, risultando bocciata la proposta di abrogare la concessione della terza, nota come Rete 4.
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Secondo il direttore del Foglio basterebbe ora una disponibilità di Renzi per “allargare al centrodestra” la sua maggioranza di governo, che ha appena fatto cilecca al Senato in una votazione in cui sono mancati i consensi di Denis Verdini e degli altri fuoriusciti da Forza Italia.
Mi appare quanto meno irrealistico parlare di un allargamento della maggioranza “al centrodestra” mentre Matteo Salvini e la sorella dei Fratelli d’Italia reclamano un referendum come quello inglese, e annunciano la solita raccolta di firme, per fare uscire anche l’Italia dall’Unione Europea, peraltro ignorando o fingendo di ignorare –che è ancora peggio- il divieto costituzionale di sottoporre a referendum i trattati internazionali sottoscritti dall’Italia e ratificati dal Parlamento.
Diversa, certo, è la posizione di Berlusconi sul fronte europeo, al netto però delle sortite e delle offensive del suo capogruppo alla Camera Renato Brunetta, appena mandato a quel paese, e giustamente, in televisione da Bruno Vespa perché contestava al finanziere Davide Serra, contrario alla Brexit, l’amicizia con Renzi. Come se fosse un reato.