Esiste una criminalità percepita e una reale. Vale a dire, da un parte le rapine, gli omicidi e tutti i crimini denunciati alla polizia e alle autorità giudiziarie. Dall’altra la nostra dimensione psicologica, quanto ci sentiamo sicuri nella nostra città, indipendentemente dall’essere o meno stati vittima di un crimine.
A Milano la situazione sicurezza è allarmante, supportata da fatti di cronaca che riguardano sia pestaggi, che rapine e violenza in generale. L’ultima pronuncia del questore di Milano – di questo mese di maggio – evidenzia che ad aumentare sono le violenze sessuali del (+2,4 per cento) e i maltrattamenti in famiglia (+10 per cento), ma è lecito anche aggiungere la costante presenza in città di furti, rapine, episodi di violenza e minacce, a seguito ad esempio di occupazione abusiva di alloggi comunali.
Nella stessa occasione, il questore De Iesu ha annunciato una riduzione dei furti di quasi il 10 per cento e delle rapine, in calo in generale del 12 per cento; ma non ha tenuto conto del fatto che solo qualche anno addietro nel corso della medesima conferenza per la festa della polizia, erano stati forniti dall’allora questore Indolfi (nella foto) i dati dei primi mesi del 2010, con una quota di furti che ammontava a circa 20mila (la cui proiezione annuale avrebbe dato un valore di circa 60mila), mentre oggi ammontano a più di 160mila. E’ evidente allora che dal 2010 a oggi sicuramente ci sono state delle oscillazioni delle quote di piccoli atti criminali come i furti, ma anche che i milanesi hanno ragione a percepire un livello bassissimo di sicurezza visto che gli episodi di ruberie e violenze in realtà si attestano ad alte quote.
E’ chiaro che non è lecito né consigliabile la giustizia “fai da te”. Esistono la legge e le autorità deputate a farla rispettare, ma non è neanche accettabile che una persona, che difende sé stessa e le proprie fatiche, o che semplicemente fa il proprio lavoro, debba affrontare un processo e spesso una condanna. Questo, tuttavia, è proprio quello che accade nel caso in cui si venga accusati di eccesso di legittima difesa, ad esempio.
Io difendo le forze dell’ordine, anche se sono costrette a usare il manganello per difendere ad esempio una donna assalita, o un passante o negoziante aggrediti da un ladro che compie una rapina. Quando parlo di uso del manganello, dunque, non lo faccio pensando a un utilizzo arbitrario e violento, che di certo sposterebbe la colpa e la responsabilità dal criminale al vigile, ma penso piuttosto a tutti quei casi in cui il tutore della sicurezza è impossibilitato ad intervenire, se non con l’ausilio della forza – che in questo caso oserei definire “difensiva”. Ciò che intendo perpetrare è infatti la difesa della vittima, e contestualmente anche del rappresentante delle forze dell’ordine che rischia di essere denunciato dallo stesso delinquente.
Il governo ha approvato un decreto legge anti tortura che ha esposto le forze dell’ordine a centinaia di processi in qualità di imputati, perché divenuti soggetti ad azione penale se intervengono con la forza per far rispettare legge. Non si tratta di reinventare o giustificare la violenza dell’autorità, bensì di dare alle forze dell’ordine gli strumenti per intervenire e ai cittadini la possibilità di veder garantita la propria sicurezza.