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Lungotevere, benvenuti nel Bronx del centro di Roma

babele politica

Basterà un minuto di silenzio, prima dell’insediamento del sindaco Raggi, per far dimenticare quel volto dolce e sorridente di Beua Solomon? Lo studente venuto da lontano per guardare da vicino in quel pozzo di civiltà che dovrebbe essere la Roma letta sui libri di storia. Naturalmente non può bastare. Come non può bastare il riferimento all’alcol e allo sballo. Problema che pure esiste e va affrontato. Ma che non può giustificare la morte violenta perpetrata da balordi che girano indisturbati nella città, a caccia delle possibili vittime.

Ma prima di tutto ciò, dobbiamo parlare dei lungotevere. Di quelle banchine, larghe 8 metri, secondo le indicazioni del progetto originario, che sono poste a sostegno degli argini del Tevere, fatti erigere dopo la grande piena del 1870 che sommerse la Capitale. Banchine che appaiono o scompaiono, nemmeno si trattasse dell’Olandese volante, a seconda della stagione e delle relative piogge che fanno crescere il greto del fiume.

Su una parte di queste strutture é stata realizzata dal Comune una pista ciclabile. Dove è possibile fare jogging, ma solo nelle ore diurne. Perché come scende la sera, l’ambiente si trasforma. Non dappertutto grazie alla presenza di alcune attività che alimentano la vita romana. Ma dove non arrivano le luci psichedeliche di qualche locale privato, ecco allora aprirsi la porta dell’inferno.
Baracche fatiscenti, ombre che nella notte si rincorrono, spaccio di droga e gruppi organizzati di delinquenti pronti a fare il loro triste mestiere. Può quindi capitare che un giovane americano, che non conosce i luoghi e ha bevuto una birra in più, si trovi all’improvviso circondato da questi demoni moderni. Pronti a ghermirlo, a derubarlo, e anche a ucciderlo.

Non siamo nel Bronx, dove si può morire per uno sguardo maldestro. Nemmeno nelle favelas messicane: dove la vita umana conta meno di niente. Luoghi comunque circoscritti e visibili nella loro geografia. Enclave urbane che é possibile evitare. Siamo nel cuore di Roma. Ponte Garibaldi, che fa da tetto a quest’umanità negata, é a 10 metri dal Ministero di Grazia e giustizia. E altrettanto da quello della Sanità. Poco più distante dal Ministero della Pubblica Istruzione.
La Camera dei deputati e il Senato, come pure il Vaticano sono solo poco più in là. Siamo quindi al centro di un quadrilatero istituzionale, che le forze dell’ordine sorvegliano giorno e notte per paura di attentati. Ma le zone franche continuano a vivere indisturbate, nella loro contiguità. Com’é possibile che, solo a qualche metro da questo spiegamento di forze, esista una zona off limits, in cui regna solo la legge della giungla? Cosa fanno le autorità – soprattutto quelle cittadine – per evitare che questo succeda? Per non consentire quelle baracche maleodoranti e i luoghi bui – dove anche la luce di una lampadina è negata – fatti apposta per garantire il regno della siringa?

Eppure il Tevere non é un fiume senza vita. Al contrario lungo le sue sponde da sempre sono fiorite attività ed interessi. Negli anni passati era la spiaggia dei romani de Roma. Con i grandi tuffatori che si gettavano dai ponti. Oggi c’é tanta movida e tanta cultura nelle manifestazioni organizzate da enti vari. Poi ci sono i circoli sportivi che da Roma Nord fino quasi alla foce si susseguono quasi senza soluzione di continuità. É negli intersisti tra queste diverse attività che alligna l’incuria, l’abbandono e il malaffare. Il regno di quel permissivismo che non ha ragione alcuna. Se non il disinteresse dei pubblici poteri. Pronti solo a un minuto di silenzio, quando quel degrado spezza una giovane vita.
Se poi la vita spezzata è quella di un giovane studente americano, la cosa si complica notevolmente. E’ l’immagine di Roma che risulta sfregiata in un immaginario internazionale di cui la città ha estremamente bisogno per sopravvivere. Per rimanere una città aperta che accoglie i pellegrini e gli amanti del bello di tutto il mondo. Basta quindi con la retorica della comprensione e del permissivismo. Mettiamo ordine nella città: questo deve essere uno dei primi compiti della nuova Giunta. Che non ci siano più altri casi come quello di Beau. Che quegli agglomerati improbabili a ridosso dei luoghi frequentati da migliaia di persone siano immediatamente rimossi. E si impedisca la loro continua ricostituzione.

Per ottenere un risultato immediato non ci vuole molto. Basta qualche vigile e una ramazza. Ma, in prospettiva, le cose sono meno semplici. E’ necessario un cambio di passo. “Se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”: cantava Fabrizio De André in una sua bellissima canzone (“la città vecchia”). Ma quella era appunto una canzone. Che una retorica compassionevole, per troppi anni, ha trasformato in azione di governo della città, fino alle inevitabili tragiche conseguenze.


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