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Perché sono preoccupato per la Roma a 5 stelle sbandierata da Virginia Raggi

babele politica

Le difficoltà incontrate da Virginia Raggi non vanno sottovalutate. A monte della vicenda sono problemi grandi come una casa. Non è il normale scontro politico interno, che divide tutte le formazioni politiche italiane. Basti pensare alla difficile convivenza all’interno del Pd o alla crisi del centrodestra. Nel caso dei pentastellati c’è qualcosa di più. Una generale incertezza che riguarda la forma di quel movimento: nato e cresciuto nella protesta, pure giustificata, rispetto alla governance dei propri rivali. Ma ora stretto nel difficile passaggio di chi si è assunto l’onere di governare una delle città più disastrate d’Italia. Tenendo conto che stiamo parlando della Capitale di uno Stato che vuole giustamente avere maggior voce in capitolo a livello internazionale.

Il format deciso, con la firma imposta al cosiddetto “Codice di comportamento” – quella sorta di contratto che lega ciascun esponente del movimento alle procedure imposte dalla Casaleggio Associati – determina una contraddizione non facilmente risolvibile. In politica il conflitto è elemento fisiologico. Rappresenta il motore stesso della rappresentanza. In generale si risolve con la vittoria di uno schieramento sull’altro. E’ il risultato di una competizione che risponde a regole generali che hanno due diversi punti di riferimento. La storia del movimento in cui sono incardinate. Si pensi, ad esempio, al “centralismo democratico” del vecchio Pci. La regolazione imposta dal cotè istituzionale in cui questa storia deve vivere e svilupparsi. La Costituzione italiana, nel caso precedentemente citato. Il rapporto dialettico che ne deriva ne determina, alla fine, il relativo equilibrio.

Nel dna dei pentastellati questa sintesi, almeno per il momento, non sembra essere un amalgama riuscito. Lo si è già visto in molti altri casi: a partire dal sindaco di Parma, con tutte le traversie del buon Pizzarotti. Copione che rischia di ripetersi nelle vicende romane. Ciò che non si è compreso è la netta distinzione tra i due momenti: quell’elettorale, in cui il movimento è tutto;  e la successiva assunzione di responsabilità conseguenti alla possibile vittoria. In questa seconda fase, la logica interna del movimento dovrebbe deperire per lasciare spazio ad altre regole generali. Che sono poi quelle stabilite dallo Statuto di Roma Capitale. Regole che attribuiscono al sindaco e solo a lui la responsabilità nella scelta dei suoi principali collaboratori. Violare questo principio, trasferendo i relativi poteri a favore di un’entità esterna, significa travolgere regole istituzionali che, invece, sono poste a tutela dell’ordinamento democratico. Far prevalere l’accordo privato – il Codice di comportamento – sulla regola pubblica.

Conflitti del genere nella storia italiana si sono più volte manifestate. Nel 1993, ad esempio, quattro ministri furono costretti a dimettersi, su indicazione del segretario Occhetto, dal Governo Ciampi, a seguito di un voto del Parlamento, che non concedeva l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Furono sostituiti per breve tempo, prima delle nuove elezioni che, l’anno successivo, portarono alla formazione del primo governo di Silvio Berlusconi. Quell’interferenza fu quindi pagata a caro prezzo. Almeno da parte del Pds, come allora si chiamava il partito di Achille Occhetto. Quindi attenti a non scherzare con il fuoco. Si può anche aver successo in una battaglia, ma non è detto che poi si vincano le guerre.

Nel caso di Roma, tuttavia, esiste una preoccupazione ancora maggiore. Il programma elettorale dei pentastellati è stato di una vaghezza eccezionale, rispetto ai reali problemi della città. Si è puntato, anche giustamente, su un’esigenza di discontinuità, visto i disastri lasciati in eredità dalle precedenti Giunte: sia esse di centro destra che di centro sinistra. Voglia di nuovo: questo è stato il centro di una proposta politica che ha allettato i pochi romani che sono andati a votare. Non bisogna dimenticare, infatti, che il sindaco di Roma è stato eletto solo da un terzo degli aventi diritto. Avendo la maggioranza deciso per l’astensione: cosa che, naturalmente, non può essere imputata ai figliocci di Beppe Grillo. Ma questo secondo aspetto non può essere trascurato da chi si appresta ad essere il sindaco di tutta la città.

La conseguenza peggiore della vaghezza programmatica è stata la scarsa percezione dei drammatici problemi della Capitale, che non richiedono una semplice operazione di maquillage, ma interventi profondi destinati a rovesciare come un guanto quello che è stato il cosiddetto “modello Roma”. Una città gestita, al più e comunque malamente, come un semplice capoluogo regionale: lontana anni luce dalla governance delle altre Capitali europee. O, senza andare troppo lontano, dall’efficienza di una città come Milano. Se vi fosse stata questa consapevolezza e quindi un corrispondente programma d’intervento, seppure abbozzato per grandi linee, oggi la situazione all’interno del Movimento sarebbe ben diversa.

Non ci sarebbero divisioni di cordata basate solo su posizioni di potere. Il gossip sarebbe derubricato a quello che deve essere. I nomi dei possibili assessori non girerebbero come birilli, in posizioni intercambiabili. Ma sarebbero ancorati ad un curriculum in grado di garantire un po’ tutti. Soprattutto, la loro selezione avverrebbe in funzione di competenze indispensabili per affrontare i singoli dossier, all’interno di un disegno organico condiviso. E’ forse questo lo scenario al quale stiamo assistendo? Non sembrerebbe. Come non sembra che il sindaco, appena eletto, abbia la forza sufficiente non per imporre il proprio punto di vista. Ma quello della maggioranza che l’ha votata dopo aver aderito al programma elettorale presentato.

Ecco quindi una possibile spiegazione di quanto sta avvenendo. Non ci faremo appassionare dal conflitto tra Raggi, Di Maio o la Faraona, secondo le analisi di retroscenisti che danno il pittoresco di una vicenda estremamente seria. I romani, votando per il proprio sindaco, hanno giocato le loro carte, sperando non solo in una discontinuità, ma in un cambiamento reale. E non per stare peggio. Attenti, quindi, a non far crollare quelle aspettative. Per molto meno, sindaci supportati da partiti ben più strutturati, hanno dovuto gettare la spugna.

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