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Sergio Mattarella, i Pokemon e le ansie dei politici

Sergio Mattarella

Non ho capito, francamente, se il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ce l’avesse più con gli italiani in genere o con i politici in particolare quando ha esortato alla calma nell’abituale incontro estivo con i giornalisti parlamentari al Quirinale.

Dall’ansia si è tentati certamente di fronte al terrorismo e alla pazzia che dilaga insanguinando ogni giorno qualche parte del mondo alle prese con una guerra che il Papa in qualche modo si consola attribuendola ai soldi, e non o non anche alla religione di cui si vantano i fanatici, a dir poco, dell’Islam. Ma dall’ansia si è tentati pure per la pochezza – diciamoci la verità – del dibattito politico italiano, “surreale” come quello lamentato da Mattarella a proposito della data e dello “spacchettamento” del referendum sulla riforma costituzionale. Una cosa che il capo dello Stato, evidentemente attentissimo ai giochi televisivi dei nipoti, ha paragonato alla “caccia ai Pokemon”.

Diavolo di un uomo, e di un nonno, il presidente della Repubblica è riuscito con la sua mancanza d’ansia a fare impazzire i grillini. Che prima si sono scagliati, all’ingrosso, contro di lui immaginando chissà quale collusione con i soliti giochi di Matteo Renzi o di chissà chi altro, e poi, al minuto, si sono calmati riconoscendo con i componenti pentastellati della Commissione Affari Costituzionali della Camera che il capo dello Stato in fondo aveva ed ha ragione invitando ad aspettare le decisioni della Corte di Cassazione. Che avrà tempo fino al 15 agosto per valutare la regolarità delle procedure e iniziative referendarie intraprese, e l’unicità o meno del quesito su cui chiamare gli elettori alle urne, anche se richieste formali di cosiddetto spacchettamento da parte del necessario quinto dei parlamentari non sono neppure pervenute.

In Cassazione, dove l’ansia non è certamente di casa, salvo che non si debba decidere su qualche processo a Silvio Berlusconi, come accadde tre anni fa, proprio di questi tempi, per rendere definitiva la sua condanna per frode fiscale, minacciata dall’immanenza di una prescrizione segnalata per fax dalla solerte Procura della Repubblica di Milano, difficilmente anticiperanno i tempi concessi dalla legge per fare scattare un’altra scadenza. Che è costituita dai 60 giorni a disposizione del presidente del Consiglio per valutare poi la data del referendum, già spostata di suo da Matteo Renzi, a livello di previsione o di preferenza, fra un’intervista televisiva e l’altra, dal 2 ottobre al 30, e poi al 6 novembre, senza escludere, o lasciare escludere da qualche suo amico, neppure il 27 per risparmiare al presidente della Repubblica la presunta ansia, a dispetto evidentemente della calma ostentata e predicata in pubblico, di non vedere approvata in tempo la legge finanziaria, mettendola al riparo dalla crisi o altre turbolenze provocate da un risultato del referendum sfavorevole alla riforma costituzionale. Ma qui forse stiamo scivolando pure noi nella caccia ai Pokemon.

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Di ansia continuano a soffrire gli ufficiali e sottufficiali di Forza Italia, dove la quasi assunzione di Stefano Parisi da parte di Silvio Berlusconi neppure sotto la veste di “consulente esterno”, come qualcuno ha scritto un po’ per fare lo spiritoso e un po’ per cercare di svelenire l’aria, è riuscita a placare proteste, mugugni e quant’altro.

L’ex ministro Altero Matteoli ha continuato a rivendicare ai dirigenti, diciamo così, di ruolo del partito la competenza e il diritto di misurarne la febbre e di indicare eventualmente la terapia per farla abbassare. Giovanni Toti, governatore ligure e ormai ex consigliere politico – si deve presumere – di Silvio Berlusconi, ha lasciato senza smentite o precisazioni le notizie o voci diffuse da qualche giornale di una sua minaccia di dimissioni se quello del mancato sindaco di Milano dovesse rivelare qualcosa più di un fantasma da lui temuto.

Non parliamo poi del solito Renato Brunetta. Che ormai non ha più bisogno neppure di parlare contro Stefano Parisi. Gli basta essere ripreso da una qualsiasi telecamera per lanciare le sue fulminanti smorfie di scetticismo o disapprovazione. Non servirà a placarlo neppure la sospensione delle ostilità e degli sfottò concessagli sul Foglio da Andrea Marcenaro, al quale forse il fondatore Giuliano Ferrara e il direttore Claudio Cerasa, entrambi decisi a dare una mano a Parisi, hanno forse consigliato di fare qualche sconto nella polemica, temendo che per tigna il capogruppo forzista della Camera dica e faccia contro il loro protetto più di quanto non abbia già detto e fatto.

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Ansioso invece non è Eugenio Scalfari, che continua ad aspettare con fiducia l’iniziativa di Matteo Renzi preannunciatagli da qualche Altissimo sinora sconosciuto per una “radicale” riforma della nuova e non ancora applicata legge elettorale della Camera. Una riforma studiata quasi apposta- è apparso di capire- per consentire al fondatore di Repubblica e al suo editore e amico Carlo De Benedetti di votare sì al referendum costituzionale d’autunno, o di chissà quando.

In attesa di questo intervento risolutivo, Scalfari si è abbandonato ai ricordi raccontando, a 35 anni di distanza, le tre ore di intervista concessagli nella sede delle Botteghe Oscure dall’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer per porre la famosa “questione morale” dell’occupazione dello Stato ad opera dei partiti, escludendo però il suo perché diverso dagli altri. Una diversità che Scalfari, bontà sua, riconosce ora perduta dalla sinistra, se mai l’ha davvero avuta. E che nel 1981 non scaldò il cuore di Giorgio Napolitano, preoccupato – ha spiegato Scalfari – delle possibili complicazioni nei rapporti con i socialisti. I soliti socialisti, nel ricordo e nelle convinzioni di Scalfari, compromessi più degli altri nella questione morale denunciata da Berlinguer, e per giunta destinati a conquistare dopo soli due anni con Bettino Craxi la guida di un governo di coalizione con la Dc e tutti i suoi tradizionali alleati: il cosiddetto pentapartito.

Di quel dissenso da Berlinguer il presidente ormai emerito della Repubblica non si è lodevolmente mai pentito, anche se Scalfari ha omesso di ricordarlo.

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