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Tutte le astiose polemiche di Massimo D’Alema contro Matteo Renzi

Proprio dalla Puglia, sua terra politicamente elettiva e insanguinata da un incidente ferroviario dichiarato “inammissibile” dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la possibilità ancora esistente che due treni locali si scontrino frontalmente su un binario unico viaggiando a più di cento chilometri l’ora, e lasciando tra le lamiere contorte 27 morti e una cinquantina di feriti, Massimo D’Alema ha lanciato con una sfortunata coincidenza il suo ultimo affondo contro Matteo Renzi. Lo ha fatto in una lunga intervista alla barese Gazzetta del Mezzogiorno – che qualche viaggiatore di quei due treni probabilmente sfogliava o leggeva tra Corato e Andria – ricorrendo ad una dose di sarcasmo superiore alla media. Un sarcasmo d’altronde pari – bisogna riconoscerlo – a quello che gli riservano, di risposta, il presidente del Consiglio e compagni di corrente, o di area, quando ringraziano e definiscono un affare le critiche del loro avversario interno di partito ritenendolo ormai impopolare, oltre che rottamato.

La “credibilità” di Renzi? Molto scarsa, secondo D’Alema, che dubita anche dell’attendibilità della sua minaccia di dimissioni, e addirittura, di ritorno a casa in caso di sconfitta nel referendum d’autunno sulla riforma costituzionale. Una sconfitta cui l’ex presidente del Consiglio ha cominciato a dare il suo contributo anche di piazza, diciamo così, partecipando a pubbliche manifestazioni per il no, come quella appena svoltasi a Bari. Un no del quale D’Alema è orgoglioso, avendolo già paragonato una volta in televisione alla coraggiosa indisciplina opposta nell’Assemblea Costituente dal comunista Concetto Marchesi al voto favorevole all’articolo 7 ordinato in persona da Palmiro Togliatti perché venisse blindato nella carta costituzionale il Concordato fra lo Stato e la Chiesa raggiunto sotto il regime fascista.

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Ad accreditare la diffidenza, a dir poco, di D’Alema di fronte agli avvertimenti o minacce di Renzi ha contribuito – bisogna riconoscere anche questo – lo stesso presidente del Consiglio quando ha lasciato scrivere e pubblicare, in un silenzio sostanzialmente confermativo, che le dimissioni ventilate dopo un’eventuale sconfitta referendaria sarebbero solo dalla carica di governo, non dalla segreteria del partito, come l’avversario si è affrettato a sottolineare. Una postazione, quella della segreteria dal Pd, dove Renzi evidentemente conta di controllare e anche determinare gli sviluppi di una eventuale crisi: o in direzione delle elezioni anticipate, se dovesse riuscire a convincere un riluttantissimo Mattarella, o in direzione di un governo politico o simil-tecnico “di scopo” a lui gradito, incaricato di gestire l’inderogabile approvazione della legge finanziaria e la riforma della pur nuova e non ancora applicata legge elettorale della Camera. Ciò per evitare che i due rami del Parlamento sopravvissuti al referendum con le attuali competenze vengano rinnovate con regole tanto diverse da rendere impossibile a chiunque ottenere anche al Senato la fiducia strappata a Montecitorio.

Ma ad un governo “di scopo”, per la cui guida non mancherebbero personalità attrezzate e disponibili, dovrebbe essere assegnata, secondo D’Alema, anche una riforma costituzionale più stringata, efficiente e condivisa di quella targata Renzi e approvata dalle Camere attuali con una maggioranza che l’ex presidente del Consiglio, con uno svarione costituzionale imperdonabile per la sua esperienza, ha definito “semplice”, criticandola anche per questo.

Quella “semplice”, in realtà, è la maggioranza di chi partecipa alla votazione, come avviene per le leggi ordinarie, per le mozioni e persino per la fiducia al governo. Per le modifiche costituzionali, come prescrive l’articolo 138 della Costituzione, occorre quanto meno la maggioranza “assoluta”, quindi qualificata, composta dalla metà più uno dei componenti di ciascuna Camera. Poi c’è una maggioranza ancora più qualificata, quella dei due terzi, che risparmierebbe alle modifiche alla Costituzione la verifica referendaria. E’ davvero curioso che anche D’Alema, come altri parlamentari, in verità, ma anche come un bel po’ di giornalisti che pure si sentono specializzati in questa materia, pasticci così male e così tanto fra maggioranza “semplice” e maggioranze “qualificate”, che si chiamano così per rafforzare l’ampiezza del voto favorevole e il suo grado di rappresentatività.

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L’intervista di D’Alema alla Gazzetta del Mezzogiorno, seguita secondo Il Sole 24 Ore da altre critiche al governo, in sede diversa, sulla faccenda della Banca Etruria, si segnala per una precisazione che l’ex presidente del Consiglio si è deciso a fare dopo ben quattro mesi, e ripetute sollecitazioni rivoltegli proprio qui, su Formiche.net, a proposito del giudizio su Renzi come “uomo del Mossad” attribuitogli sul Corriere della Sera del 7 marzo da Maria Teresa Meli riferendo di confidenze da lui fatte ad amici in un ristorante romano.

“Non ho mai detto – ha precisato D’Alema – che Renzi è una spia del Mossad”, cioè dei potenti servizi segreti d’Israele. Ed ha continuato, sempre giocando sulla differenza fra “uomo” e “spia” del Mossad: “Che Renzi abbia un rapporto speciale col primo ministro Netanyahu è notorio. Ma è un fatto politico, non spionistico”. Ed ancora, con l’aria di chi la sa lunga: “Che a Lussemburgo ci sia una società in cui i migliori amici di Renzi sono soci di alcuni Fondi israeliani è noto”. Fondi naturalmente non di caffè.

Non meno puntuta è stata l’osservazione di D’Alema contro i magistrati italiani che “fanno discorsi interessanti, a volte comizi”, ma non sul conto di Carlo De Benedetti per i 600 mila euro e rotti guadagnati con operazioni finanziarie su titoli di banche popolari a ridosso di un decreto legge varato a Palazzo Chigi. Indagini su quest’affare, in verità, sono state effettuate dalla Procura di Roma ascoltando anche Renzi, ma chiedendo alla fine l’archiviazione al giudice competente. Una richiesta di archiviazione che forse non ha convinto D’Alema, compiaciuto comunque della recente intervista al Corriere della Sera nella quale anche De Benedetti ha minacciato il suo voto referendario contro la riforma costituzionale senza una modifica del combinato disposto, come si dice, con la legge elettorale della Camera in vigore da soli 13 giorni.

Sprezzante, a dir poco, è stato infine il giudizio espresso dall’ex presidente del Consiglio sui centristi alleati del Pd al governo, indicati beffardamente, proprio mentre sono divisi e tentati dal disimpegno, come votati “al martirio”, cioè “destinati a un compito di servizio, con relativo licenziamento finale”. Ciò per via, evidentemente, del premio di maggioranza alla lista più votata, e non alla coalizione, stabilito dalla legge elettorale della Camera nota come Italicum. Di cui i centristi appunto reclamano la modifica, pur avendola approvata.

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