Ha pienamente ragione Renzi quando afferma di avere sbagliato alcuni mesi orsono a personalizzare la battaglia sul referendum di autunno che, invece, verterà esclusivamente sulle modifiche alla Costituzione approvate dal Parlamento. Esse dovranno essere ben illustrate da tutti coloro che le hanno votate nelle aule parlamentari, o che le condividono nel Paese, in un civile confronto con gli elettori e con quelli che, invece, non le hanno condivise e pertanto voteranno no nella consultazione popolare.
Sarebbe pertanto un errore catastrofico a livello nazionale e locale accettare il terreno di dibattito che vorrebbero imporre gli avversari politici del Premier che se ne augurano la sconfitta e la successiva, immediata caduta. Se il referendum è, e deve restare, solo sulla riforma costituzionale – e non sull’intera azione di Governo che è stata finora molto ampia e non limitata ad essa – allora l’Esecutivo dovrà restare in carica anche se dovessero vincere i no. E’ una ovvietà, ma è bene ribadirla con forza. L’azione dell’Esecutivo guidato da Renzi non si è imperniata solo sulla riforma costituzionale, ma su un insieme di interventi in tanti campi che giustamente il Presidente del Consiglio ha rivendicato anche nei suoi ultimi interventi.
Bene, se questo è vero – e indiscutibilmente lo è – gli elettori saranno chiamati a giudicare l’intero operato del Governo solo alle elezioni politiche del 2018 e non nel prossimo referendum costituzionale. Inoltre, in caso di dimissioni di Renzi, all’indomani di un suo esito negativo, si determinerebbe un rilevante scostamento da quanto previsto dalla Costituzione, secondo la quale solo il Parlamento può togliere la fiducia all’Esecutivo. Come potrebbe infatti il Presidente Mattarella accettare le dimissioni di Renzi, se il Parlamento non gli votasse la sfiducia? Qualora Renzi salisse comunque al Quirinale, il Professore di Diritto Costituzionale Sergio Mattarella lo rimanderebbe alle Camere, perché verifichi in quella sede istituzionale – e solo in essa – se dispone ancora della fiducia della sua coalizione.
Certo, come ha rilevato fra gli altri anche il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, in caso di vittoria del no le difficoltà politiche per Renzi e il suo Governo diverrebbero rilevanti, e non si potrebbe far finta di nulla, Ma in questo caso, lo ripetiamo, la complessa situazione politica che verrebbe a determinarsi dovrebbe essere affrontata limpidamente alla luce del sole, nelle aule parlamentari ma pure in tutto il Paese, analizzando a fondo l’attuazione o meno dal febbraio del 2014 di tutto il programma del Governo e considerando anche, e direi soprattutto, le gravi conseguenze sul piano economico e politico italiano e internazionale che scaturirebbero da una vittoria del no.
E con riferimento a quanto potrebbe accadere a partire dai giorni successivi all’esito del referendum, senza voler fare in alcun modo terrorismo – come invece afferma qualche esponente del fronte del no – è largamente presumibile che vi sarebbero effetti tellurici su Borsa, spread, collocazione dei titoli del debito pubblico e non solo. Il Paese apparirebbe alla grande opinione pubblica internazionale – è inutile nasconderselo – ancora una volta irriformabile e le conseguenze sarebbero paurosamente negative ad ogni livello, non solo nelle settimane immediatamente successive alla consultazione, ma anche nei mesi e forse anche per alcuni anni dopo.
E se pure è necessario che alla data del referendum si arrivi in ogni caso con la legge di Bilancio approvata almeno in un ramo del Parlamento, non ci si illuda che questo poi possa bastare a rassicurare mercati, risparmiatori, imprenditori e l’intero Paese che produce, investe, rischia, esporta e compete. Rilevanti modifiche sarebbero chieste inevitabilmente nell’altro ramo del Parlamento al testo già approvato, con il rischio (molto concreto) che la legge di Bilancio non venga approvata entro la fine dell’anno e si apra così il 2017 con l’esercizio provvisorio.
Allora, ci potremmo permettere una forte instabilità, alla luce anche del pesante quadro internazionale, fra minacce del terrorismo, crescita economica in rallentamento come affermano Fmi e Bce, ininterrotti flussi migratori da gestire sempre con umanità, effetti delle elezioni presidenziali non solo negli Usa ma, non lo dimentichiamo, nella vicina Austria? E potremmo permetterci veramente di veder ‘tranciare’ di netto a partire dal giorno dopo il referendum l’azione del Governo, finalizzata sinora alla crescita dell’Italia? E, per fare un solo esempio fra i tanti possibili, perché dovrebbe interrompersi l’imponente lavoro di modernizzazione infrastrutturale del Paese perseguito dal Ministro Delrio con i grandi risultati sinora raggiunti, e con quelli ancor più numerosi e significativi che si attendono a breve medio termine, ma che per ragioni tecniche e normative hanno bisogno di un certo lasso di tempo per essere conseguiti e goduti dai cittadini?
Inoltre, alcune delle riforme varate negli ultimi due anni e mezzo dall’Esecutivo e approvate dal Parlamento, in certi casi attendono ancora sia pure in parte decreti di attuazione e relativi regolamenti. E poi non subirebbe anche una durissima battuta d’arresto l’azione promossa dal Governo per il rilancio del Mezzogiorno con l’approvazione dei Patti sottoscritti con Regioni e Città metropolitane, appena portati al Cipe? Ma nutriamo una ragionata fiducia che queste nostre fin troppo ovvie riflessioni siano condivisibili da parte dello stesso Presidente Renzi.
Ha ragione allora Giavazzi quando afferma sul Corriere della Sera di mercoledì 10 agosto che oggi l’incertezza è il peggior rischio che corre il Paese. Per questo un ragionato Sì al referendum sul merito specifico della riforma – pur nella piena consapevolezza generale della sua perfettibilità – sarebbe un investimento collettivo sul futuro prossimo e remoto dell’Italia, che dovremmo tutti insieme proiettare (finalmente) in una piena e irreversibile modernità europea.
Federico Pirro – Università di Bari