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Come cercare di far vincere davvero il Si’ al referendum

Bessi, Ilva

In vista del referendum costituzionale d’autunno gli appelli al ‘Sì’ stanno coinvolgendo le associazioni di rappresentanza, così come tante personalità dell’economia e della società, per ottenere, nel merito della riforma, un appoggio che allarghi il consenso e si trasformi in un numero considerevole di voti a favore del ‘Sì’. Come di consueto il tempo di qui alla consultazione sarà la vetrina per consigli e opinioni di guru ed esperti della materia, di storytelling, e testimonial più o meno convinti, di mobilitazioni di massa di volontari e comitati, di big data e campagne social ecc. Tutti elementi fondamentali, ovviamente, per ‘spostare’ da una parte o dall’altra il risultato, ma che rischiano di farci dimenticare quello che in politica è l’essenziale: togliersi la giacca del ‘narcisismo’ e presentarsi di fronte ai cittadini sapendo che il referendum riguarda loro e non noi ‘politici’ o le ‘elite economiche o culturali’.

Insomma per ottenere risultati bisogna usare, come dicono gli inglesi, ‘the boots on the ground’, cioè le truppe di terra. Che semplificando significa rivolgersi ai cittadini in maniera diretta, costruendo azioni sui territori, pensate e mirate – anche utilizzando linguaggi diversi – ai gruppi socio economici in cui è divisa la società. In seguito su questo punto farò un esempio che deriva dalla mia esperienza diretta.

E’ certamente importante aggiudicarsi l’appoggio dei vertici delle associazioni di rappresentanza, di testimonial prestigiosi in tutti i campi socio-economico-culturali che possono svolgere un prezioso lavoro per aggregare il consenso. Ma occorre verificare il grado di profondità che questa aggregazione può raggiungere nel corpo sociale dei loro sostenitori, e che questo sforzo diventi una vera e propria forza d’urto nei territori, nelle discussioni singole o di gruppo che la quotidianità ci offre.

Il perché è presto detto: dal punto di vista demografico il nostro Paese presenta alcune concentrazioni abitative in grandi nuclei urbani, ma per la maggior parte i cittadini sono sparsi in piccoli centri, in borghi, in agglomerati rurali. La cosiddetta ‘provincia italiana’. E in queste aree il mezzo politico ancora efficace di coinvolgimento è il rapporto diretto, la stretta di mano, l’incontro in luoghi confidenziali, nelle associazioni di categoria, di volontariato, nelle fondazioni, nei circoli cittadini, ecc. Occasioni in cui è possibile, dopo avere ascoltato, illustrare come la vittoria del ‘Sì’ al referendum, e il corrispettivo aggiornamento della Carta costituzionale, porterà miglioramenti effettivi nella loro vita quotidiana, della loro esistenza, del lavoro, del welfare.

Andare nei territori – termine abusato nel nostro politichese – portandoci le idee e i confronti che, altrimenti, corrono il rischio di restare confinati negli incontri con i vertici o le elite politiche, economiche, culturali, nei comunicati stampa, nelle interviste e nei tweet più o meno efficaci o simpatici. È la strategia che a me pare efficace e per sostenerla mi rifaccio a un’analisi a cui partecipai oltre dieci anni fa per comprendere l’importanza del voto delle aree rurali in vista delle elezioni politiche in Italia. Una riflessione che nasceva dall’analisi del risultato delle elezioni USA del 2001: era emerso il peso politico ed elettorale delle aree rurali e semirurali, soprattutto nel sud e nell’ovest degli Stati Uniti. Le zone meno popolate e maggiormente caratterizzate dalla presenza di attività agricole furono determinanti per la vittoria di George W Bush, perché i ‘boots on the ground’ dei Repubblicani furono più efficaci.

Lo stesso valeva allora e vale, fatte le debite proporzioni, anche per l’Italia di oggi, un Paese ancora strutturalmente provinciale: l’operazione di coinvolgimento e mobilitazione deve riguardare questa cosiddetta ‘terza Italia’, che abita non solo nelle aree rurali ma nei borghi, nelle aree extracittadine. È quella classe media laboriosa che oggi vede erodere la sua esistenza.

La figura che segue è quella utilizzata nell’analisi di oltre dieci anni fa e riporta la distribuzione i 475 collegi elettorali uninominali della Camera dei deputati del Mattarelum per grado di ruralità degli ambiti comunali che li compongono. La scelta ha una sua logica ‘fisica’ perché aiuta visivamente a rendersi conto dell’importanza del voto delle aree rurali.

È una risorsa sociale preziosa, che è da sempre decisiva per spostare gli equilibri elettorali. Ora si tratta di capire come coinvolgere questa forza: io credo nel sistema ‘the boots on the ground‘, un metodo che si muova dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto coinvolgendo tutti coloro che ci credono. Ma occorre essere convinti fino in fondo per dare vita a uno sforzo d’urtoche dovrebbe partire dal Presidente del Consiglioper andare e stare nei territori, nella profonda provincia italiana a spiegare i contenuti del quesito referendario. Un’azione che deve avere, come ho spiegato all’inizio, una caratteristica a priori: deve mettere da parte qualsiasi narcisismo, qualsiasi personalizzazione esasperata perché i protagonisti del referendum, quelli su cui debbono ricadere i benefici del cambiamento della Carta costituzionale sono i cittadini. Il loro voto potrà cambiare le cose, per se stessi e per tutto il Paese. Perché noi classe dirigente dobbiamo sempre ricordarci chi ci dà il potere: il popolo.



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