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Come slalomeggia Matteo Renzi fra Libia, referendum e legge di stabilità

Che cosa c’entrano il referendum costituzionale e la legge di stabilità con la guerra in Libia? All’apparenza niente, nella sostanza invece potrebbero incidere nelle scelte che il governo dovrà fare o sarà costretto a fare nel prossimo futuro. Dopo mesi di tentennamenti, era inevitabile che sulla Libia i nodi politici venissero al pettine: l’avvio dei bombardamenti americani su Sirte il 1° agosto, su richiesta del governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu e guidato da Fayez al Serraj, ha portato alla scontata disponibilità italiana sull’uso delle basi di Sigonella e Aviano, ufficializzata dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, nel question time del 3 agosto alla Camera: “Il governo è pronto a valutare positivamente un’eventuale richiesta di uso delle basi e dello spazio aereo se fosse funzionale a una più rapida ed efficace conclusione dell’operazione in corso”.

Fin dall’inizio delle operazioni statunitensi la domanda che tutti si sono posti era ovvia: che farà Matteo Renzi? In politica estera il suo chiaro obiettivo è sempre stato quello di ottenere il massimo dividendo politico con il minimo rischio, obiettivo tecnicamente impossibile da raggiungere: siamo il secondo contributore della coalizione anti Isis in Iraq dopo gli Usa, ma i nostri aerei non bombardano; ci candidiamo alla leadership di una ipotetica missione di stabilizzazione in Libia, ma ci teniamo alla larga dalla prima linea; tra Mare Sicuro ed Eunavfor Med abbiamo oltre 1.500 uomini e donne e numerose unità nel Mediterraneo, ma di fatto svolgiamo solo una meritoria opera di salvataggio di migliaia di profughi. Il continuo tira e molla è costato, com’è noto, il biennio al Consiglio di sicurezza dell’Onu come membro non permanente perché evidentemente nel mondo non si fidano troppo dell’Italia e l’impossibilità di avere i voti necessari per battere un gigante come l’Olanda ha costretto al compromesso di dividere quel seggio per un anno a testa con gli olandesi.

Il mondo politico è appeso al voto del referendum costituzionale, forse alla fine di novembre, per capire che cosa succederà. Prima, però, ci sarà una legge di stabilità che con i chiari di luna economici di questo periodo non sarà una passeggiata: come potrebbe il presidente del Consiglio convertirsi a una politica estera più incisiva, e dunque più operativa, proprio mentre deve trovare i soldi per la promessa riduzione di imposte e il disinnesco delle clausole di salvaguardia? Non gli conviene alimentare altre polemiche. E come potrebbe farlo alla vigilia di un referendum su cui gioca tutte le sue carte e nel quale eventuali decisioni da “prima linea” potrebbero alienargli i voti di un mondo cattolico-pacifista al quale sta guardando il leader in pectore del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio? Non è un caso che il 4 agosto Di Maio abbia criticato il bombardamento di Sirte e la disponibilità italiana a concedere le basi perché così, ha detto, aumenterebbe la possibilità di attentati in Italia: “Concedere le basi, bombardare la Libia significa non proteggere il popolo italiano”, ha sentenziato il vicepresidente della Camera.

Non è neanche un caso, d’altro canto, che le milizie che combattono per la liberazione di Sirte sarebbero “felici” della concessione delle basi: “Se l’Italia prenderà questa decisione ci farebbe piacere che il mondo intero la seguisse per combattere Daesh, una formazione molto pericolosa e nemica dell’umanità” ha detto all’Ansa il generale Mohamed al Ghasri, portavoce delle milizie. Così come al Serraj ha chiesto agli Usa di bombardare Sirte, sarebbe interessante se chiedesse all’Italia di entrare nelle acque territoriali libiche per un più diretto contrasto agli scafisti e ai terroristi: mentre Eunavfor Med è una missione europea, Mare Sicuro è solo italiana, con 900 marinai e 5 navi che solcano in questo momento il Mediterraneo. Poter operare in prossimità delle coste libiche farebbe acquisire all’Italia un ruolo diverso.

Siccome tutto è politica, sappiamo che alla fine ogni decisione dipenderà da interessi di vario tipo. In questa fase, però, è politicamente e storicamente interessante ricordare quello che avvenne all’epoca della guerra in Kosovo nel 1999. In occasione del decennale, Massimo D’Alema (che era presidente del Consiglio quando cominciò l’operazione contro Slobodan Milosevic) fu intervistato da Stefano Cappellini sul quotidiano il Riformista del 24 marzo 2009. Il passo più interessante, più volte citato negli anni scorsi, è il seguente: “Clinton mi disse: «L’Italia è talmente prossima allo scenario di guerra che non vi chiediamo di partecipare alle operazioni militari, è sufficiente che mettiate a disposizione le basi». Gli risposi: «Presidente, l’Italia non è una portaerei. Se faremo insieme quest’azione militare, ci prenderemo le nostre responsabilità al pari degli altri paesi dell’alleanza». Era moralmente giusto ed era anche il modo di esercitare pienamente il nostro ruolo. Dopo il Kosovo, infatti, l’Italia ebbe un ruolo primario. Una parte della regione è stata poi presidiata da una forza multinazionale sotto comando italiano. È stata la prima volta che un contingente multinazionale serviva sotto la bandiera del nostro paese. Qualche anno dopo abbiamo avuto il comando della forza Onu nel Libano. Due dei momenti più significativi dell’impegno di peacekeeping di tutto il dopoguerra”.

E’ giusto ricordare che la situazione geopolitica era molto diversa e che oggi i rischi sono di tutt’altro genere. E’ giusto anche aggiungere che la missione Kfor (oggi ancora più determinante con il passaggio di foreign fighters nei Balcani) continuerà a essere comandata da un italiano, visto che a giorni il generale Giovanni Fungo subentrerà al generale Guglielmo Miglietta, e che la missione Unifil è stabilmente in mano agli italiani da anni (oggi è guidata dal generale Luciano Portolano). Ogni scelta è legittima, ma se l’Italia si limiterà a concedere le basi di Sigonella e Aviano sarà nei fatti solo una portaerei.

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