Trenta giorni: Barack Obama ha dato una scadenza all’ampliamento della missione militare contro lo Stato islamico alla Libia, ma è chiaro che più delle volontà di Washington a decidere la durata dei bombardamenti sarà la situazione sul campo.
SIRTE, L’EX FALLBACK
Due mesi fa, quando le milizie di Misurata (la città/stato che più di ogni altra realtà libica contribuisce alla stabilità del governo di Tripoli) hanno avviato l’offensiva per scacciare i baghdadisti, ebbero per almeno due, tre settimane vita facile. Quello che doveva essere l’opzione di “fallback” dell’IS – definizione che usò il New York Times a novembre 2015 per spiegare che il territorio libico poteva essere scelto dal Califfato come piano-B-statuale nel caso in cui i bombardamenti su Siria e Iraq si sarebbero fatti insostenibili – si sgretolava difronte alle milizie misuratine. Si era parlato di una fuga degli uomini di Abu Bakr al Baghdadi verso il Fezzan, la regione desertica del sud, da dove avrebbero potuto rimettere insieme le forze e costituirsi come un’entità clandestina, senza controllo territoriale, ma allo stesso tempo nociva; anzi, forse di più. Si pensava che Sirte sarebbe caduta sul modello Falluja, la città irachena che ha un legame storico col gruppo di Baghdadi, conquistata per prima più di due anni fa, e tornata a giugno sotto il controllo del governo iracheno dopo che i jihadisti l’avevano lasciata abbandonata, e infestata di mine, davanti all’avanzata delle truppe regolari.
LO STALLO DI SIRTE
A Sirte ci sono le mine, ci sono i cecchini, ma non c’è stata quella ritirata completa. In un angolo di una decina di chilometri quadrati di superficie, sono asserragliati dai cinquecento ai mille baghdadisti (numeri che circolano, probabilmente 800, ma qualche autore ben informato, come Daniele Raineri del Foglio che a giugno è stato in Libia, parla addirittura di meno di cinquecento). Sono pronti allo scontro finale e hanno deciso che prima di abbandonare quel “fallback” cercheranno di arrecare il maggior numero di vittime possibili al nemico: ci sono già più di trecento morti e duemila feriti tra i misurati, un numero elevatissimo se si pensa che l’offensiva viene condotta da seimila miliziani. I reportage dal posto raccontano che le forze di Misurata, che sono l’unico raggruppamento in grado effettivamente di combattere contro lo Stato islamico in Libia (sia per numero, sia per armi, sia per formazione e supporto esterno di qualche unità di élite occidentale), sono ferme tra le vie di una città infestata da trappole esplosive e cecchini, per questo l’intervento dell’aviazione americana è stato richiesto. Si cerca “l’azione militare decisiva” di cui Joseph Dunford, il capo dello stato maggiore congiunto degli Stati Uniti, ha parlato per definire la necessità impellente dei raid aerei concordati con Serraj, la cui fine, appunto, al di là delle previsioni dell’Amministrazione, arriverà probabilmente soltanto quando l’obiettivo “decisiva” sarà raggiunto.
LA DIFESA PREVENTIVA DI OBAMA
In questo le parole di Obama possono essere inquadrate da un punto di vista più che altro politico. La Libia dell’intervento a sigla Onu del 2011 contro il rais Muammar Gheddafi è uno dei dossier pesanti e ancora scottanti della sua amministrazione. Un dossier che inquadra al suo interno parti di legacy, non positiva, e pezzi di policy di Hillary Clinton, la candidata alla Casa Bianca per il Partito Democratico, che cinque anni fa era segretario di Stato e falco interventista dell’amministrazione. La Libia del 2011 è il tema scatenante di quel “free riders” che Obama affibbiò agli alleati, scrocconi perché approfittano degli Stati Uniti per risolvere i bubboni globali, nell’antologica intervista firmata da Jeffrey Goldberg sull’Atlantic (sotto quest’ottica, però, la storia si sta più o meno ripetendo); è la causa scatenante delle proteste che portarono all’uccisione del console Christopher Stevens a Bengasi nel 2012; è l’esempio granitico di come l’idea occidentale di regime change ed esportazione dei diritti democratici non funziona senza che il processo venga seguito per lungo tempo: ossia, in Libia non bastava rovesciare il regime, ma era necessario accompagnare il percorso di democratizzazione più da vicino ed evitare che il territorio diventasse il piatto ricco delle milizie, delle tribù e dei signori della guerra. Donald Trump, il candidato repubblicano alle presidenziali, ha usato spesso il tema per attaccare Clinton e Obama, per lui vettore del presente, passato e futuro, incolpandoli della situazione attuale e degli errori collegati all’intervento del 2011; salvo poi che lo stesso Trump ai tempi era favorevole all’azione, e in precedenza aveva cercato la sponda di Gheddafi per aprire business in Libia. Per tali ragioni annunciare che la guerra durerà soltanto 30 giorni, evocare un’operazione lampo, è una strategia politica che cerca di allontanare le critiche dell’opinione pubblica dalla decisione di aprire un terzo fronte anti-IS, e prova a non scomodare troppo l’elettorato chiamato al voto tra qualche mese.
IL FRONTE ESTERNO
Ma la questione ha anche ripercussioni che vanno oltre la politica interna americana. Mosca ha criticato la decisione degli Stati Uniti, definendo i raid “illegali”: un’ulteriore strappo tra le due superpotenze (entrambe membri permanenti del Consiglio di Sicurezza). In realtà non lo sono perché le intese a latere del Gna, il Governo di accordo nazionale creato dall’Onu stesso a dicembre dello scorso anno, prevedevano che Serraj potesse richiedere un aiuto militare esterno. Altre critiche sono state sollevate da Tobruk: la città in cui risiede ancora lo pseudo governo della Cirenaica sta conducendo una campagna alternativa alla lotta allo Stato islamico, guidata dal generale freelance Khalifa Haftar, che sta conducendo le milizie dell’est libico contro alcune fazioni ritenute estremiste (alcune lo sono, altre meno) che si trovano a Bengasi, dove martedì un’autobomba è esplosa uccidendo 22 miliziani cirenaici. Oltre all’appoggio dell’Egitto e degli Emirati Arabi (e in modo meno esplicito della Russia), ci sono ormai pochi dubbi sul fatto che i soldati di Haftar stiano ricevendo sostegno anche da piccole unità di forze speciali occidentali: per esempio, il 17 luglio è stato abbattuto dai ribelli un elicottero di Haftar e tra i morti all’interno del velivolo sono stati ritrovati i corpi di tre commandos francesi; l’Eliseo s’è trovato costretto a confermare la notizia. Secondo il parlamento di Tobruk, che ancora non ha avallato definitivamente il governo Serraj, come previsto dall’accordo Onu, i raid americani che aiutano Tripoli sono “incostituzionali”. Dunque si crea, di nuovo, un’enorme dicotomia: da un lato gli Stati Uniti danno una grossa prova di sostegno politico e pratico a Serraj, fornendo gli aerei per fornire lo scacco “definitivo” nell’avanzata delle truppe contro l’IS; dall’altro, in Cirenaica, i team di élite americani e francesi e i servizi italiani appoggiano le milizie di chi giudica questi raid di supporto al Gna incostituzionali.
IL COMMENTO DEL CORSERA
“E’ difficile non vedere, nella scelta di Washington – scrive oggi l’editorialista del Corriere della Sera, Franco Venturini – anche una delusa rinuncia alla linea tante volte ribadita secondo cui della Libia dovevano occuparsi gli europei guidati e coordinati dagli italiani. Da molti mesi, invece, dietro una facciata di concordia gli europei inseguono progetti diversi, i britannici e soprattutto i francesi sono assai meno contrari alla divisione della Libia di quanto lo siano gli italiani, gli italiani fanno gioco di sponda con gli americani assai più di quanto facciano francesi e britannici”.