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Ecco come gli Stati possono rispondere alla guerra informativa

Per impedire la diffusione di contenuti pericolosi o anche diffamatori, uno Stato può anche diffondere una massa innumerevole di segnali irrilevanti, ma non falsi, una tecnica affine a quella del “rumore” nelle reti tradizionali. Oppure, denigrare i siti avversi o gli account di Facebook minacciosi, e magari manipolare l’informazione o filtrare direttamente alcuni siti internet.

E, ancora, si può modellare la percezione delle operazioni, gestendo i motori di ricerca su internet, manipolare Wikipedia, dire infine delle vere e proprie bugie su fatti politici, strategici, militari. Che verranno credute tanto quanto saranno più diffuse.

E’ ovvio che tutte queste tecniche non escludono affatto l’utilizzazione di  username attribuibili ad altri soggetti, oppure l’uso del malware che blocca la rete e gli stessi computer.

Poi c’è la possibilità, da parte dei governi e delle organizzazioni terroristiche o mafiose, di gerarchizzare i messaggi, in modo che i lettori nella rete possano dare più importanza ai primi che agli ultimi post del web, quelli che di solito non si leggono o vengono ritenuti meno attendibili perché meno diffusi.

Infine, altre tecniche di manipolazione nel web e, soprattutto, nei social media, sono il Blaming, l’”accusa”, la falsificazione, il labelling, la definizione di qualcosa o qualcuno in modo che questo o egli siano marchiati a fuoco dalla definizione, l’”Appello alla Paura”, l’”Opinione dell’Autore”, oppure dell’Autorità o degli Esperti”, la “Relativizzazione”, la “Demonizzazione”, che non ha bisogno di spiegazioni, i “video manipolati”, le “immagini ad hoc”. Le prime foto delle rivolte in Siria contro Bashar Al Assad erano immagini di comizi del regime alle quali era stata tagliata la parte “pericolosa”. Tutte queste tecniche sono state utilizzate, da tutti gli attori, nella guerra in Siria.

Insomma, la guerra della, e nella rete, è un grande equalizzatore strategico, un efficace fattore di mobilitazione di massa dentro il campo avversario, infine uno straordinario elemento di pressione su governi e decision makers militari e economici.

Che, di solito, sono immediatamente sensibili alla pubblica opinione, che è il vero oggetto di massa della manipolazione da parte del nemico.

Nel caso del Daesh-Isis, il gruppo terrorista del Califfato usa specificamente soprattutto Twitter, dato che questo tipo di social media permette meglio il nascondimento delle identità reali dei “messaggiatori”, mentre oggi non usa molto altri social media tipo Friendica, Quitter and Diaspora, che hanno rimosso rapidamente gli account del califfato dai loro record.

Tramite un sito di Google Play chiamato “Dawn of Glad Tidings”, il Califfato raggiunge oggi  la piattaforma  Android, che utilizza anche per le comunicazioni interne e, soprattutto, per la propaganda verso i giovani islamisti in Occidente.

Per il Daesh, in questo senso modernissimo,  propaganda e comunicazione quasi si sovrappongono:  far vedere i video delle decapitazioni veicola il messaggio che il Califfato è forte, non teme le forze avverse, distruggerà l’Occidente.

Ed è anche questo  il nucleo della sua propaganda all’estero, comprese le tecniche di steganografia o di “citazione implicita” che vengono lette dai militanti occidentali o da quelli arabi come segnali per un’azione sul loro territorio uguale, nel terrore, a quella che hanno visto nei filmati.

Non conta che sia a Nizza, a Parigi o a Colonia, conta, per i manager della comunicazione del Daesh-Isis, che l’atto si compia e che sia imprevedibile.

Il regime di Assad è, lo ricordiamo, caduto come gli altri Paesi arabi durante quella Information Operation che si è poi definita “le primavere arabe”.

In Libia, sempre per una operazione da Arab Spring, pochi parenti dei carcerati si riunirono  davanti alla casa circondariale di Bengasi, per protestare contro il trattamento dei loro cari, carcerati sia politici che “comuni”.

Successivamente, alcuni attivisti della “Lega Libica per i Diritti dell’Uomo”, filiale della sede centrale di Parigi, inscenarono  una manifestazione contro il  regime di Gheddafi, la polizia del regime reagisce immediatamente, e il tutto viene filmato e “ingrandito”, mentre il governo francese sta inviando un sottomarino al largo della capitale della Cirenaica con un gruppo del Service Action della DGSE per ampliare e sostenere la rivolta.

In Tunisia, la rivolta contro il costretto (dalla polizia che chiede la consueta tangente)  suicidio di Mohammed Bouazizi, il 17 dicembre del 2010, viene moltiplicata nelle varie città con la rete, mentre si amplifica la reazione del regime di Ben Alì, che però non percepisce interamente la nuova minaccia molecolare e “a sciame” della nuova comunicazione politica.

Anche la Rivoluzione Francese fu amplificata a dismisura dalle notizie, false, che riguardavano le tante e feroci torture nella Bastiglia, dove i rivoluzionari parigini trovarono solo pochissimi reclusi, in ottima salute. Fra di loro c’era anche il Marchese De Sade.

In Egitto, Piazza Tahrir si gonfia molto  solo dopo la prima manifestazione contro il governo di Mubarak, e dentro la Piazza arrivano la sorella, medico anch’essa, di Ayman Al Zawahiri e, soprattutto, il responsabile di Google per l’Egitto, che permette di bypassare le comunicazioni web via social tra i pochi rivoltosi e la grande platea dei giovani internettiani egiziani.

Il “servizio d’ordine” armato  per i ragazzi di Piazza Tahrir sarà fornito, aiuto interessato, dalla Fratellanza Musulmana.

(seconda parte di un’analisi articolata; la prima parte si può leggere qui, le altre puntate saranno pubblicate nei prossimi giorni)


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