Non so se le regole d’ingaggio preannunciate dal Giornale di famiglia per i prossimi, pare imminenti ritorni da Silvio Berlusconi di altri parlamentari che se ne staccarono due anni fa per seguire Angelino Alfano siano le stesse poste al recentissimo rientro in Forza Italia del più alto in grado degli alfaniani: l’ormai ex capogruppo al Senato, e già presidente dello stesso Senato, Renato Schifani. Che, tornato a casa, non mi sembra che abbia ancora annunciato, come si vuole chiedere agli altri, la sua partecipazione alla campagna referendaria per il no alla riforma costituzionale pur da lui votata, e fatta votare dagli allora colleghi di gruppo. Al pari della legge elettorale della Camera, nota come Italicum e approvata dagli alfaniani, in verità, solo per disciplina di maggioranza, con la riserva dichiarata di chiederne poi la modifica per l’assegnazione del premio di governabilità non alla lista ma alla coalizione più votata.
L’adesione degli alfaniani alla riforma costituzionale fu invece senza riserve, e argomentata con vanto come un decisivo contributo all’ammodernamento del Paese. Se e quando Schifani si unirà alla campagna referendaria di Renato Brunetta e amici ritrovati sarà curioso e un po’ anche divertente sentirne le ragioni.
L’ex presidente del Senato difficilmente potrà dire che dal momento dell’approvazione parlamentare della riforma targata Renzi è cambiato il quadro politico, perché da allora è francamente mutata solo la sua collocazione, a meno che non ritenga di essere lui stesso il quadro. Egli ripiegherà magari sulla posizione di Stefano Parisi, il cui no referendario è meno gridato di Brunetta e considerato di quelli “intelligenti” raccomandati, col solito silenzioso assenso di Berlusconi, da Gianni Letta. Un no, insomma, paradossale per dire diversamente un quasi sì, accompagnato dal rifiuto di fare poi del no vincente un motivo per una crisi a sfondo solo elettorale.
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La prospettiva di Stefano Parisi è, a dir poco, complessa. Lo stesso Renzi o un successore dovrebbe farsi carico negli ultimi, scarsi diciotto mesi della legislatura del compito di fare eleggere alla sua scadenza una nuova Camera, con una legge elettorale naturalmente diversa dall’Italicum, e al posto del Senato, con una legge per forza proporzionale, come si fa in questi casi, un’Assemblea Costituente. Come quella eletta nel 1946 per approvare la Costituzione della Repubblica uscita vincente sulla Monarchia dal referendum istituzionale.
Vasto programma, avrebbe detto scetticamente De Gaulle. E’ uno scenario di fronte al quale mi sono chiesto, francamente, se il pur ottimo Parisi ci sia o ci faccia, per quanto stimabile non foss’altro per avere saputo resistere ai giudizi un po’ troppo sprezzanti espressi su di lui da Brunetta, Altero Matteoli, Giovanni Toti e altri dirigenti di Forza Italia senza rinunciarvi subito.
Non cambiare ma terremotare la Costituzione in meno di diciotto mesi per sostituire il Senato con un’Assemblea Costituente destinata a produrre un altro terremoto ancora mi sembra irrealistico. E ancora più irrealistico che una simile scossa alla Costituzione possa essere data con una maggioranza dei due terzi dei componenti delle Camere, senza la quale si deve passare per le forche caudine del referendum cosiddetto confermativo.
Nel frattempo, ammesso e non concesso che tutto questo possa svolgersi, ripeto, in un anno e mezzo scarso, con i doppi e forse anche più passaggi parlamentari richiesti, il governo in carica, da chiunque diretto, come e con quale maggioranza affronterà i problemi di ogni giorno? Che, nei tempi che corrono, non sono né potranno diventare, per quanto si voglia essere o fare gli ottimisti, problemi di ordinaria amministrazione, interni e internazionali.
Sono davvero curioso di vedere se e come Parisi porterà e svilupperà il suo progetto alla Conferenza programmatica di metà settembre, non ho capito se di Forza Italia, o di un’area più vasta. E come ne uscirà dal dibattito che dovrà pur svolgersi ed entrare nei particolari.
In ogni caso, manca alla prospettiva di Parisi qualsiasi alternativa, a cominciare da una vittoria di Renzi e della sua riforma nel referendum d’autunno. Una vittoria che sarà pur difficile, secondo i critici, o i gufi, come preferisce chiamarli il presidente del Consiglio, ma non si può certamente escludere. In questo caso non riesco ad immaginare cosa potrebbe restare del progetto di Parisi.
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Una serie di circostanze -dalla inconcludenza dei risultati elettorali del 2013 alla forzata partenza del nuovo Parlamento con un governo di cosiddette larghe intese, via via ristrette ma poi ricresciute, dall’impulso esercitato dal presidente più a lungo rimasto al Quirinale nella storia della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla svolta impressa al partito di maggioranza, il Pd, dall’avvento di un segretario giovane, ostinato e fuori dai tradizionali schemi come Matteo Renzi, per niente post-comunista e atipicamente post-democristiano – ha reso costituente questa legislatura che sembrava condannata a una fine precoce. E che era stata per giunta delegittimata in qualche modo dalla bocciatura, da parte della Corte Costituzionale, della legge elettorale che l’aveva prodotta: il cosiddetto Porcellum.
Ora si tratta, col referendum d’autunno, o di ratificare quel poco o tanto che si è realizzato in tema di riforme, magari migliorandolo in un momento successivo, o di azzerare tutto, facendo però in quest’ultimo caso, da direzioni diverse, gioco subalterno di sponda ad un congresso del Pd che la minoranza, cavalcando o minacciando il no referendario, cerca di riaprire fuori tempo. Un tentativo appena denunciato con forza, e giustamente, da Renzi in persona, pur riconoscendo l’errore commesso originariamente con la cosiddetta personalizzazione del voto.
Voltarsi dall’altra parte per non vedere la realtà è comprensibile per una forza anti-sistema come il movimento grillino, di cui non si può attendere a tempo indefinito l’evoluzione. Farlo anche in quell’area che era una volta il centrodestra non è solo un errore. E’ anche un delitto.