Politologo e storico, anche del berlusconismo cui ha dedicato saggi fondamentali, Giovanni Orsina (Roma, 1967), professore della Luiss, è interlocutore prezioso per cercare di decifrare la portata del tentativo di Stefano Parisi di conquistare la leadership del centrodestra. Tentativo riconfermato anche l’altro ieri dal primo incontro con Silvio Berlusconi, ancora convalescente.
Professore, dunque Parisi ce la può fare?
Le rispondo facendo però la necessaria premessa.
Ossia?
Quella di non avere la sfera di cristallo (ride).
Giusto disclaimer.
Le dico però che il tentativo di Parisi ha un tratto che lo differenzia dai precedenti: è partito meglio di tutti. Perché non lo so, ma non credo sia soltanto una mia impressione. A Corrado Passera, che non conosco come non conosco Parisi, non è stato dato minimamente il credito di cui gode l’ex-city manager di Milano. Ad Angelino Alfano, idem. E neppure a Giovanni Toti.
Che aveva beneficiato di un’investitura potente: ritiro nella spa, photo opportunity dal balcone…
Sì, e poi aveva saputo anche vincere una competizione elettorale, come le regionali liguri, ottenendone quindi una legittimazione.
S’è dato una spiegazione?
Io credo che tutti i suoi predecessori fossero in qualche modo avvolti da un certo scetticismo, perché si capiva che Berlusconi non avesse deciso il passo indietro. Ma c’è anche un’altra questione, quella dei tempi.
Ossia?
Conta straordinariamente la tempistica di un’azione politica. Ci son cose che, se le fai un secondo prima o un secondo dopo, non funzionano.
Essere l’uomo giusto al momento giusto. Questo spiega la calda accoglienza da osservatori, editorialisti ecc?
Esatto. Di quelle figure, diciamo di political influencer, ma anche di una opinione pubblica colta, quella che legge i giornali, diciamo, che sente il bisogno enorme di un’alternativa a Matteo Renzi, e che percepisce la discesa in campo di un leader credibile per il centrodestra, sia una vantaggio per il Paese, prima che per quello schieramento.
Il sistema avrebbe di nuovo un’alternativa.
Sì, perché Renzi è impantanato, anche se sta cambiando strategia. Dire che ha perso lo smalto di due anni fa, è quasi una banalità. D’altra parte sul M5s come alternativa, almeno in questi giorni, è il caso di stendere un velo pietoso.
Parisi piace, dunque.
Piace ma proprio in questo sentimento è insito un grosso rischio, quello di fare la destra che piace alla sinistra o che piace all’establishment, il che significherebbe prendere il 5 per cento.
E dunque, come ne esce?
Il suo vero problema è costruire su questo patrimonio di ben volere, che non guasta, per cominciare a toccare il cuore dell’elettore di centrodestra.
Finora non lo ha fatto?
Non mi pare proprio. E ha anche mancato di sfruttare la seconda metà d’agosto: quel periodo dell’anno in cui, come ben sapeva Marco Pannella, qualsiasi proposta politica trova nei giornali uno spazio formidabile.
Non è un caso che nella prima repubblica fosse il periodo di convegnoni correntizi, da Lavarone a Fiuggi.
Infatti. E invece Parisi è rimasto silente. Poteva giocarsi, chessò, un affondo sulla politica europea sulle migrazioni, che lascia sola l’Italia davanti a un’emergenza enorme.
A luglio aveva preferito uscire con un’adesione al No, che è parso un po’ un atto dovuto e una proposta di Costituente subito parsa impraticabile.
Sì, sul punto è apparso in imbarazzo. Da un lato perché tutto il centrodestra che lui deve federare è contro le riforme di Renzi, se si eccettua il Ncd. E la proposta di Costituente è sembrata un escamotage per scrollarsi di dosso l’immagine di conservatore in senso stretto: meglio dire no a queste riforme con la promessa di farne di migliori.
Dall’altro?
Dall’altro perché – in se stesse, a prescindere dal fatto che le ha promosse Renzi – queste riforme piacciono all’elettorato di centrodestra, le sente sue. Ma scusi: tagliare i parlamentari, semplificare l’iter legislativo, centralizzare i poteri nell’esecutivo, questi cambiamenti costituzionali portano il nome di Berlusconi. E forse anche per questo Renzi ha deciso la spersonalizzazione. Ma poi c’è un altro aspetto…
Avanti professore.
Che tutto il tentativo di Parisi è marcatamente bipolarista.
Punta dritta all’Italicum così com’è…
E col nuovo impianto costituzionale. Parisi punta cioè a scalzare dal ballottaggio il M5s per giocarsi la sfida con Renzi.
Per arrivarci, come diceva prima, dovrà toccare il cuore di quegli elettori. Con quali parole? Perché dal 1994 e dalla rivoluzione liberale tanta acqua è passata sotto i ponti.
Se ne è passata! Il Cavaliere diceva che lo Stato era il problema e prima si fosse provveduto a smontarlo, meglio sarebbe stato. Il discorso del grande paese, della società civile che fa bene e alla quale non frapporre ostacoli. Poi, a partire dal 2001, c’era stato un cambiamento: si era cominciato a parlare di pensioni minime, di welfare, di poliziotto di quartiere.
Ricordo che, a un Meeting di Rimini, Berlusconi parlò di economia sociale di mercato.
Restavano il taglio delle tasse e gli altri temi originari, come la burocrazia, ma lo Stato cominciava a diventare pure sempre quell’entità in grado di tentare una difesa del cittadino dai pericoli di un mondo globalizzato. E poi ci fu l’apertura ai temi bioetici, ai quali personalmente il Cavaliere era abbastanza indifferente, ma che erano molto cari alla Chiesa cattolica. Non è un caso che, dal 2001, al 2006 al 2008, il peso voti dei cattolici nel centrodestra sia andato aumentando.
Oggi il mondo è cambiato.
Sì anche se è stato così fino al primo decennio di questo secolo. Oggi lei vede elettorati che si spostano sempre più a destra, in Francia, Germania, Gran Bretagna. C’è stata la Brexit, c’è Nicolas Sarkozy che deve rincorre il Front national, c’è Angela Merkel che si rifiuta di inseguire Alternative Für Deutschland e che perde.
Insomma Parisi deve parlare anche un po’ populista.
Inevitabilemente. Deve allargare la coperta a destra senza tirarla troppo sul centro, ossia restando nel Partito Popolare europeo.
Dovrà parlare di immigrazione.
Certo. Ma anche del ruolo dell’Europa.
Dovrà giocare a fare un po’ l’antieurista, Parisi?
Quello non credo, certo a come la moneta unica è stata gestita, sì. L’ha fatto spesso anche Renzi, d’altronde. Deve trovare, con la dovuta misura, un atteggiamento critico verso l’Europa.
Matteo Salvini, che un anno fa, parlava da un palco a Bologna col Cavaliere a fare da comprimario, accetterà di mettersi da parte?
Salvini è elettoralmente stazionario, avendo raggiunto il suo massimo. Il segretario leghista è un istintivo come tutti i politici. Ora si metterà alla finestra: osserverà come finisce il referendum ma, ancor prima, cosa dedicerà la Consulta sull’Italicum, che vuol dire come voteremo la prossima volta.
Non un elemento da poco.
Significa capire se giocheremo a calcio o a pallavolo. E poi, in mezzo, ci sono le presidenziali americane: Donald Trump che farà? E Brexit come si attuerà? E in Germania che succederà? Oggi lo scenario cambia ogni tre mesi: un anno fa lei si immaginava che avremmo avuto una Gran Bretagna fuori dall’Europa? E poi…
E poi?
E poi Salvini vorrà pesare Parisi: se il nuovo leader rimanesse al 10 per cento, che significherebbe perdere anche alleandosi, allora tanto varrebbe, restare da soli, fare una battaglia identitaria.
Renzi, lo diceva prima, ha qualche difficoltà. Ma aveva tentato uno sfondamento al centro. Lascerà fare Parisi in quella direzione?
Credo che Renzi non lascerà fare. Ma la sua grande abilità è tenersi molte opzioni aperte, un po’ di destra e di sinistra, un po’ di establishment e po’ populiste. Sceglierà a seconda dell’avversario: se sarà il M5s, probabilmente sarà più di sinistra e anche un po’ populista, ma se il contendente dovesse essere appunto Parisi, vedrebbe Renzi fare la battaglia al centro, come è ovvio.
(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)