Incuriosito dal titolo (“Good night, Mr. Wodehouse”), con tanto di citazione di uno dei miei scrittori preferiti, mi sono procurato l’ultimo romanzo di Faith Sullivan. Lo ammetto: con una punta di diffidenza (temevo: errore!) per una certa scrittura al femminile, per una propensione (immaginavo: ancora una volta, errore!) a descrivere una piccola comunità di donne, e così via. Ne sono invece uscito emozionato, divertito, commosso, e convinto che si tratti – per distacco – del miglior romanzo americano di quest’anno.
La storia viaggia su due binari. Il primo (quello della trama in senso stretto) è la vita tormentatissima della protagonista, dall’inizio del Novecento e per i successivi settant’anni (morirà a 85 anni nel romanzo). In ordine sparso, e senza svelare troppo del plot: la perdita del marito un anno dopo la nascita del primo bambino; i sacrifici per trovare un lavoro e far crescere il piccolo; l’incontro con gli altri, tra atti di generosità (dalle persone più impreviste) e invece manifestazioni di grettezza; il coinvolgimento del figlio nella Prima Guerra Mondiale e il suo ritorno in America in gravi condizioni. E via via, nell’arco dei decenni, la sequenza di lutti, dolori e abbandoni che attraversano la vita di ciascuno. Più – per converso – la faticosa costruzione di nuove amicizie, di un nuovo amore, e la descrizione (grazie ad altre figure del romanzo) del peso doloroso del pregiudizio sulla vita delle persone (contro una ragazza madre, contro un omosessuale, eccetera). Un materiale che si sarebbe prestato a un uso narrativo banale e convenzionale, e che invece la Sullivan affronta con delicatezza e con autentica capacità di introspezione psicologica, curvandosi con intelligenza su ciascun personaggio, descrivendone empaticamente punti di vista ed emozioni.
Ma il secondo binario del romanzo è quello decisivo. La protagonista, lungo tutto il corso della sua vita, anche nei momenti di dolore più acuto, non rinuncia mai a un momento tutto suo, tutto personale, in cui nessuno possa più farle del male: quello della lettura (in particolare dei romanzi di Wodehouse, autore con cui la protagonista intesse dialoghi insieme reali e immaginari). Il cuore del romanzo sta proprio qui: nel potere terapeutico della lettura. Non per “fuggire” dalla realtà, ma per stare meglio dentro la vita, per affrontare meno disarmati il nostro viaggio tra dolori, incomprensioni, pregiudizi e morte.
In fondo, la dolorosa battuta di Philip Roth sulla vecchiaia (“non è una battaglia: è un massacro”) vale complessivamente per la nostra vita, e per le esperienze di dolore e abbandono che siamo chiamati ad affrontare: in questo cammino, mentre il destino non si fa scrupolo di prendersi crudelmente gioco di noi, solo un mix di affetti (difesi e costruiti con impegno e coraggio) e buone letture (come medicina e nutrimento costante) può forse aiutarci a resistere, ci suggerisce la Sullivan.
Il senso più profondo della vita sta in questo dialogo triplice: tra i vivi, le persone amate che non ci sono più, e gli stimoli della grande letteratura. Nulla di patetico, nessun sentimentalismo appiccicoso: ma un gioco di specchi che combina consolazione, comprensione di sé e degli altri, e accettazione dei nostri limiti. Quella che troviamo nei romanzi, ci dice la Sullivan, non è fiction, o non è solo fiction: anzi, la lettura, l’atto stesso del leggere, tra intrattenimento e illuminazione, dispiega un magico potere “trasformativo”, nel senso che ci aiuta a cambiare la nostra realtà, a “espandere” la nostra umanità, intesa come “intelligenza” di noi stessi e di chi ci sta intorno.
Nel romanzo si trovano mille altri stimoli: l’attenzione al “dovere” e al “fare” (e non solo il ripiegamento sul “sentire” e sul “patire”); il valore della gentilezza quotidiana e dei piccoli atti di attenzione verso gli altri; l’ammirazione non invidiosa verso il successo altrui, da tradurre in aspirazione personale alla crescita e al miglioramento di sé; la crudeltà del tempo che scorre, e che ad una ad una smonta le illusioni della giovinezza; la comprensione dei sentimenti contrastanti, del conflitto tra le diverse aspettative, e quindi la scoperta degli “altri”; la semplicità dei comportamenti come valore; l’assenza di malizia che non vuol affatto dire stupidità; l’innocenza non come condizione ma come conquista, come approdo di un percorso di comprensione di se stessi e degli altri.
Ma soprattutto la Sullivan ci consegna un insegnamento incancellabile, che vale a maggior ragione oggi, in tempi di infantilismo, di sistematica auto-vittimizzazione, di ricerca ossessiva dell’alibi e della giustificazione: occorre smetterla di autocommiserarci. Dopo i colpi che ci vengono assestati dalla vita, occorre provare a rialzarci, o comunque fare del nostro meglio. Possono mancarci le forze, in un momento, ed è umanamente comprensibile, specie se lo schiaffo del destino era immeritato: ma non deve mancarci la capacità di ridarci una ragione e un obiettivo, e di accettare con dignità e senza piagnistei quanto il caso e la sorte hanno ancora in serbo per noi.