Stanno cadendo le stelle grilline. Fenomeno ampiamente prevedibile. L’improvvisazione non garantisce l’assestamento, in natura come in politica. E la stagione pentastellata per di più è nata sul terreno impervio del disagio generato dall’incapacità della politica di riformarsi. Sicché la formazione, tutt’altro che spontaneista, di un movimento eterodiretto da oligarchi dotati di capacità demagogiche indiscutibili ha prodotto classi dirigenti abborracciate e precarie che al momento di provare le loro capacità si sono come ritratte nei vecchi vizi di una partitocrazia sbiadita che pochi ricordano. I “direttorii”, a quanto ci par di capire, sembra si siano impossessati del Movimento; gli eletti contano meno degli stessi elettori; nessuno sa chi prende effettivamente le decisioni finali, né dove si formano; manca, con tutta evidenza, un dibattito pubblico, trasparente, comprensibile in luoghi istituzionalmente riconosciuti e in organismi democraticamente votati. Tutto questo ha portato alla scomposizione di un fenomeno anomalo e contraddittorio, nato in una nebulosa e orientato da una soggettività confusa al cui vertice c’è il Web le cui chiavi sono nelle mani di una società di comunicazione.
Il M5S è stato spacciato e si è accreditato come il prodotto della più avanzata forma di democrazia diretta. Se così fosse non gli oligarchi dovrebbero poter prendere le decisioni inerenti la gestione dei gruppi parlamentari e delle funzioni degli eletti a qualsiasi livello, comprese le giunte municipali, ma i cittadini cui si riferiscono retoricamente gli esponenti più rappresentativi del Movimento. Facile a dirsi, impossibile a farsi. Ed allora gli espedienti della governance sono né più né meno quegli stessi di altri partiti di più o meno recente formazione, quelli, per intenderci, che non riconoscono a nessun organismo rappresentativo e decisionale la potestà di determinare linee politiche e scelte comportamentali, affidandosi ad un leaderismo assolutista o a grotteschi “cerchi magici”. I partiti “personali” insomma. Quegli stessi contro i quali, nella fase “primordiale” i grillini sfogavano la loro rabbia imputandogli addirittura il “blocco della democrazia”.
Ma la democrazia sembra essersi “bloccata”, nonostante le buone intenzioni sbandierate, in molti centri dove il M5S governa (o dovrebbe governare). A cominciare da Roma. Il sindaco Virginia Raggi in soli due mesi – e non per sua imperizia o inesperienza – ha messo insieme una colossale débâcle politico-amministrativa inimmaginabile al momento della sua elezione perfino da chi le era più ostile. Come è potuto accadere? Non cogliamo altra spiegazione se non nelle intestine lotte di potere tra gli stessi membri delle oligarchie grilline che, non diversamente da nefasti precedenti, assumono atteggiamenti a dir poco gladiatori per posizionarsi meglio in vista di futuri traguardi. Con la differenza, rispetto al passato, che mentre le guerricciole interne alle formazioni politiche avvenivano, per quanto possa sembrare strano, in maniera palese, alla luce del sole e celebravano le loro “apoteosi”, per così dire, nei congressi formati da delegati, sia a livello periferico che a livello nazionale, le “ire funeste” dei Cinquestelle avvengono nel chiuso di stanze dalle quali viene fatto trapelare ciò che si vuole, in barba al conclamato processo democratico cui dovrebbero partecipare addirittura gli elettori stessi. Il computer, insomma, è stato rottamato come strumento di formazione di classe e coscienza politica.
Dove, infatti, i pentastellati si confrontano? Ma veramente qualcuno crede che attraverso Twitter, Facebook et similia si possa formare un orientamento politico e di governo? Nei chiusi orizzonti di chi oggi guida il M5S non arriva la percezione del fallimento di un’utopia e ci s’incanaglisce pertanto nel cercare vie d’uscita che possano minimamente salvare la faccia. Ma la strategia, se questa è, ha il respiro corto. E la “crisi” non si risolve con un compromesso tra l’ala “governativa” e quella “radicale” del Movimento, come vorrebbero far intendere alcuni opinionisti. Entrambe le componenti sono prigioniere di un incubo: veder svanire il capitale accumulato per manifesta incapacità a procedere democraticamente nella definizione di candidature, classi dirigenti, programmi realistici, cultura di governo. Insomma, non basta – ed è chiaro come il giorno – opporsi senza una proposta. Il Campidoglio è l’emblema del vuoto. Le fuoriuscite eccellenti dall’amministrazione lo documentano ampiamente. Ci vuole ben altro per amministrare città complesse e disastrate, figuriamoci un Paese come l’Italia. Il M5S ha colto un disagio, ma non può pensare di cavalcarlo all’infinito rappresentandosi, paradossalmente, come parte del disagio stesso.