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Petrolio, come e perché la Cina tiene in ansia Arabia Saudita e Iran

L’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) ha lanciato in questi giorni l’ennesimo allarme ribassista per il mercato del petrolio causato da un rallentamento della crescita della domanda di greggio per il 2016 e il 2017, a fronte di un’offerta che, invece, resta sempre troppo alta. Nel 2016, la domanda dovrebbe aumentare di 1,3 milioni di barili giornalieri, un dato di 100 mila barili inferiore alle ultime previsioni, mentre nel 2017 la crescita dovrebbe scendere poi a 1,2 milioni di barili.

Lo schiaffo arriva da Cina e India che stanno già cominciando a ridurre la domanda di greggio e dall’offerta dei paesi produttori non appartenenti all’Opec (il principale cartello di produttori di greggio) come il Brasile, il Canada e il Kazakistan. Ad Astana, infatti, sono pronti a festeggiare la definitiva messa in moto – dopo anni di ritardi e una crescita esorbitante dei costi – del supergiacimento di Kashagan, che dovrebbe avvenire ad ottobre, come hanno fatto sapere dal consorzio che gestisce il progetto, di cui fa parte anche l’Eni.

Ma anche dentro l’Opec c’è chi come l’Arabia Saudita non vuole cedere lo scettro di leader del mercato alimentando il fuoco dell’iperofferta ed infatti ad agosto ha sorpassato gli Stati Uniti come primo produttore mondiale di petrolio. Il mese scorso, dice sempre l’Aie, Riad ha prodotto 12,58 milioni di barili di greggio e condensati al giorno, contro i 12,2 milioni degli americani: gli Stati Uniti perdono così quel primo posto conquistato ad aprile 2014 grazie al boom del tight oil.

Dunque, mentre i sauditi hanno aumentato di 400 mila barili al giorno la produzione dai propri giacimenti a basso costo a partire da maggio, circa 460 mila barili americani sono usciti dalla produzione nel giro di un’estate. Secondo Moody’s la crisi del barile Usa si è estesa al sistema finanziario che ha supportato negli anni la shale revolution.

In uno studio sulle principali bancarotte nel settore petrolifero nazionale, l’agenzia di rating afferma che questi fallimenti sono stati, per gli istituti di credito e gli investitori, tra i più catastrofici degli ultimi anni, con tassi di recupero delle somme investite pari al 21 per cento, quando la media su altri settori industriali è del 58 per cento. Gran parte dei progetti si concentrano nel bacino permiano, in Texas, che nonostante la crisi di ossigeno di capitali sembra continuare a resistere.

Proprio nei giorni scorsi, la società energetica statunitense Apache ha annunciato la scoperta di un importante giacimento di petrolio e gas in Texas. Si tratta, ha scritto la stampa Usa, della maggiore scoperta degli ultimi 10 anni dopo quella realizzata da ExxonMobil al largo delle coste della Guyana francese lo scorso luglio. Il giacimento si chiama Alpine High ed è situato nel bacino del Delaware nel Texas occidentale e potrebbe contenere l’equivalente di almeno 3 miliardi di barili di petrolio e oltre 2.000 miliardi di metri cubi di gas, ha spiegato la società in una nota.

Ma, in vista della riunione informale tra i membri dell’Organizzazione Opec e Russia, in programma a margine della Conferenza internazionale sull’energia di Algeri il prossimo 26 settembre, il vero osservatore speciale sarà la Cina. Se il motore energetico cinese continuerà nelle prossime settimane a perdere giri allora sarà veramente difficile cercare di raggiungere la quadra necessaria a rilanciare l’industria petrolifera globale.



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