Lo scorso anno è stato ricordato, anche se in forma minima, il 40° anniversario della morte di Carlo Levi, torinese, pittore, scrittore, intellettuale antifascista. Ricorreva nel 2015 altresì il settantesimo della pubblicazione, a cura di Einaudi, del suo famoso libro: Cristo si è fermato ad Eboli, racconto-denuncia della condizione di arretratezza del Mezzogiorno d’Italia.
Cristo si è fermato a Eboli è un romanzo autobiografico, dove viene raccontata l’esperienza del confino in Lucania per motivi politici, vissuto dall’autore tra il 1935 e il 1936. Il protagonista, giunto ad Aliano, piccolo paese della regione (che per Levi è Gagliano così come lo chiamavano i suoi abitanti), si trova catapultato in una realtà lontana anni luce dal mondo moderno e dallo sviluppo culturale e sociale.
Il titolo del libro nasce dal sentire popolare dei lucani, che consideravano Eboli l’ultimo paese di cristiani (per loro cristiano significava uomo) mentre in quelli più a sud, appunto i lucani, si vive una vita da non cristiani ma da animali, vista la condizione arcaica in cui si è immersi. È la narrazione di un confronto che si svolge tra un giovane intellettuale, borghese di Torino, impegnato politicamente nella lotta al fascismo e vittima delle persecuzioni del regime (Carlo Levi, amico di Pietro Gobetti, faceva parte del movimento “Giustizia e libertà” di Carlo Rosselli), e un mondo contadino arretrato, rurale, ignorante, legato a tradizioni pagane, superstizioni e stregonerie di ogni genere, alla mercé di una borghesia cinica e parassitaria, che campa sfruttando in gran parte il ceto popolare, incapace di studiare valide iniziative per porre in essere atti di contestazione e di riscatto.
Un quadro raccapricciante che certifica l’assurda condizione di divisione delle due Italia: una al Nord e l’altra al Sud. Nasce così, dopo l’Unità e la successiva legge Pica, finalizzata a debellare il brigantaggio e il ribellismo meridionale la questione meridionale. Il Cristo si è fermato a Eboli è la denuncia vibrante dell’esistenza di condizioni di vita molto diverse del nostro Paese, con un Nord ricco e benestante e un Sud in preda a disperazione, per le difficoltà quotidiane che le genti meridionali sono costrette ad affrontare. Una realtà che attraversa i decenni, senza mutamenti significativi nella coscienza morale e civile di gran parte delle popolazioni di questo pezzo d’Italia, sempre sotto osservazione e mai compreso, che già altri illustri intellettuali meridionali avevano denunciato come don Luigi Sturzo, F.S. Nitti, Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Antonio Gramsci.
Progressi dal punto di vista pratico ne sono stati fatti, ma con costi altissimi, sciupando o non utilizzando a dovere ricchezze naturali proprie di questa meravigliosa terra chiamata Mezzogiorno d’Italia e deprivandola di risorse umane e materiali, di illuminate intelligenze che in contrasto con l’agire politico del “notabilato” locale hanno preferito lasciare i luoghi di origine piuttosto che mettersi in lista d’attesa, per aspettare Godot.
Nonostante i progressi compiuti, il retaggio di una mentalità arcaica persiste, tanto da condizionare ancora oggi l’agire di pezzi di classi dirigenti, che si impongono con arroganza e prepotenza, e che comportano impotenza, rassegnazione nei ceti deboli e subalterni. È questa mentalità che favorisce fenomeni ricorrenti di tristizia sociale e trasformismo politico, causa di degrado morale e di scarsa considerazione per le questioni irrisolte di comunità angosciate. Nell’era della tecnologia avanzata ancora esistono difficoltà nell’uso di internet per collegarsi al resto del mondo. Un infinito e ciclico dibattito è la costante sull’opportunità o meno della costruzione di opere, talvolta inutili. È assente del tutto un piano di grande viabilità nazionale con collegamenti alle reti stradali locali. Non rende dal punto di vista elettorale, considerati i tempi biblici di realizzazione, per cui il disinteresse è totale, senza dire dell’ambientalismo rozzo e straccione pronto a bloccare tutto sul nascere, anche le iniziative meritorie e necessarie. I pretesti sono vari: i territori in questione talvolta si trovano all’interno di qualche Parco naturale, disegnato e istituito, decenni orsono secondo parametri elettoralistici e clientelari, e, quindi, non corrispondenti ai reali bisogni delle popolazioni, che assistono avvilite annualmente alla distruzione dei propri raccolti, a causa delle devastazioni di animali selvatici che scorrazzano tra le colture. C’è precarietà nell’erogazione idrica in alcune aree regionali. Con un tratto di penna si cancellano o si istituiscono strutture sanitarie essenziali, come se fossero uffici ordinari. Non si valuta l’età media della popolazione, il sistema orografico, visto che molte zone sono tra montagna e collina, la distanza dai più vicini ospedali. Questa è la programmazione sanitaria, avulsa dalle esigenze delle comunità locali.
I risultati nel tempo non sono mancati nel Mezzogiorno, ingiustamente sempre bistrattato, ancora molto però resta da fare. Non si tratta di chiedere aiuti, provvidenze, risorse finanziarie, lavori pubblici al governo centrale, è necessario un rinnovato impegno istituzionale, sociale, politico, religioso per far nascere una solida coscienza civile, morale, nazionale, europea. È problematico certo, i parametri finanziari e socio-economici degli ultimi mesi non agevolano: attestano che la povertà al Sud avanza con preoccupazione. È comunque auspicabile e urgente una cooperazione tra istituzioni, scuola, Chiesa, partiti politici, non chiacchierologica né elettoralistica, che abbia come punto d’attracco la formazione di una rinnovata coscienza umana e civile delle nuove generazioni del Sud. Dal “Mezzogiorno si parte per salvare il Mezzogiorno”, secondo la lezione di Sturzo.