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Virginia Raggi, il no alle Olimpiadi, la decrescita infelice e le solenni ipocrisie

Virginia Raggi

Sorprende la sorpresa per il no di Virginia Raggi alla candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024. Chi ha solo di sfuggita seguito la campagna elettorale per le comunali, aveva compreso almeno un’idea del programma a 5 stelle: pensare ai Giochi olimpici a Roma era “criminale” e non era assolutamente una priorità. Le priorità erano le buche, i trasporti che non funzionano e la raccolta dei rifiuti da migliorare. Dunque, non si comprende questo stracciarsi le vesti dei più.

Certo, c’è chi dice che il sindaco e il vice sindaco Daniele Frongia erano tutt’altro che contrari, o comunque dialoganti su eventuali modifiche dei progetti per le Olimpiadi, ed è nota la posizione favorevole dell’assessore Paolo Berdini. Ma davvero, con lo stallo e il caos di giunta, il primo cittadino poteva dire sì senza essere divorata dalla rete a 5 stelle? E davvero poteva avere la forza e il coraggio di non seguire il diktat di Beppe Grillo che pochi giorni fa, con un post di Elio Lannutti sul blog a 5 stelle, aveva decretato la morte della candidatura di Roma alle Olimpiadi?

Beninteso, non tutte le critiche alla decisione del sindaco sono peregrine. Non si ha notizia di discussioni in giunta sul tema, né si è tenuto un dibattito in consiglio comunale (organo deputato ad assumere una scelta del genere), né vi è traccia del referendum evocato anche di recente da Raggi. La democrazia trasparente dei Cinque Stelle prevede dunque delle eccezioni, rottamando così un altro feticcio grillino.

Sorprende la sorpresa, si diceva, perché le parole del sindaco per giustificare il no (no alle Olimpiadi del mattone, no a nuovi debiti, no a rischi di sprechi e corruttele striscianti) sono tesi che da anni nutrono il verbo grillino. Ma quelle parole riflettono anche una pubblicistica tipica dei giornaloni che hanno contribuito negli scorsi anni a fertilizzare il terreno su cui ha mietuto consensi il Movimento 5 stelle.

Sbaglio o le campagne “montezemoliane”e “dellavalliane” anti casta (la casta dei vituperati politici, perché non ci sono altre caste, ovviamente…) prendevano di mira, indistintamente e di fatto, anche opere pubbliche e infrastrutture, indicate come humus di spese inutili e ladrocini? E gli aedi del liberismo (magari da pulpiti sovvenzionati o agevolati dallo Stato) non ci hanno ammannito per anni l’idea che la spesa pubblica, anche per investimenti, era un incubatore inevitabile di corruzione, sprechi e malaffare? E dai magistrati non è arrivata l’impressione che a Roma c’erano associazioni mafiose che succhiavano soldi anche da lavori pubblici senza bandi o gare? Poi, però, quando il magistrato Raffaele Cantone, da presidente dell’osannata Anac, dice che non ha visto tracce di mafia (“la domanda che mi è stata posta […] in udienza è se l’Autorità Anticorruzione avesse mai individuato il reato di associazione mafiosa negli atti trasmessi alla procura e la mia risposta è stata no”), pochi o forse nessuno si è posto una domanda: c’era davvero la Mafia nella Capitale?

Conclusione: si può dire che il no alle Olimpiadi nasce anche da una ideologia bucolica, anti moderna, pauperista e da decrescita felice – e Formiche.net lo ha fatto senza remore, pur dando a spazio a manager come Peter Kruger ed economisti come Giuseppe Pennisi dubbiosi o contrari – ma la classe dirigente che in queste ore sbraita per la scelta di Virginia Raggi dovrebbe anche chiedersi se in questi anni non si è fatta travolgere – o non ha contrastato con vigore – idee, tesi, giudizi e pregiudizi ora divenuti umori e malumori a 5 stelle.

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