L’Italia è un Paese che ha perduto la memoria. Ed è bene che almeno non perda il legame con la storia. Perciò è sempre interessante quando qualche buona pubblicazione torna ad accendere i riflettori su alcune figure rilevanti del nostro passato politico.
Sicuramente questo è il merito principale del libro d’interviste raccolto da Roberto Vicaretti su Pietro Ingrao (La certezza del dubbio, Imprimatur 2015), una delle personalità di maggior rilievo del Partito Comunista Italiano, direttore de L’Unità, nonché presidente della Camera dal 1976 al ’79, scomparso l’anno scorso.
Vicaretti affida il ricordo ad alcuni dei protagonisti che l’hanno conosciuto meglio e da vicino: Filippo Vendemmiati, Nichi Vendola, Fausto Bertinotti, Luciana Castellina, Emanuele Macaluso, Achille Occhetto, Lidia Menapace, Gianfranco Pasquino, Fabio Mussi, per finire con Tommaso Di Francesco e don Ciotti.
Come si evince subito dai nomi si tratta di un quadro autorevole e poliedrico, un caleidoscopio nel quale la visione del mondo, e le istanze autenticamente ideali della sinistra italiana del XX secolo, emergono attraverso il profilo di un volto anomalo della parte più utopista del PCI. Nelle travagliate vicende del Secondo Dopoguerra, Ingrao non ha mai smesso di rappresentare il comunismo come un sogno, un’interpretazione rivoluzionaria e alternativa al presente, a costo di entrare finanche in contrasto con la linea prevalente all’interno del partito, indirizzata a obiettivi pratici e ideologici molto diversi. Vendemmiati racconta a Vicaretti, ad esempio, il singolare atteggiamento di attenzione di Ingrao verso i mutamenti sociali che attraversavano il mondo cattolico dei primi anni ’60, durante il pontificato di Giovanni XXIII, e il piglio duro, sia pure amicale, da lui tenuto verso il gruppo dissidente del Manifesto.
Ingrao, in fondo, era così: comunista ma anche sognatore; pacifista, fedele al partito, ma animato da un senso intransigente del futuro destino storico, il quale in altri suoi compagni rimaneva troppo spesso schiacciato dentro i ferrei ingranaggi dell’ambizione, prodotta dalla macchina politica di Botteghe Oscure. Se Vendola riconosce in Ingrao la tendenza positiva a essere un ‘’sognatore ad occhi aperti’’, particolarmente interessante è l’angolo visuale dei Miglioristi, testimoniato dalle parole di Macaluso presenti nel libro. Dal suo punto di vista egli aveva pochissime somiglianze caratteriali con Giorgio Napolitano, riconducibili alla pignoleria che rendeva entrambi meticolosi e precisi nel comprendere i problemi, ma per il resto invece la divergenza era enorme sotto ogni punto di vista.
Macaluso lo ricorda come indimenticabile predecessore alla direzione de L’Unità e coraggioso nella sua pugnace opposizione nel 1964 alla segreteria di Longo.
Ingrao rappresentava, infatti, l’ala sinistra del partito molto contrastata da Amendola, ma anche da Berlinguer, Pajetta e Alicata, oltre che ovviamente dalla destra migliorista. Non sono mancati nondimeno ad Ingrao anche dei dissidi a sinistra, e non solo con il già citato gruppo del Manifesto. Macaluso spiega che Ingrao più che un ‘acchiappanuvole’, come si dice che egli lo abbia definito, era un politico molto ‘astratto’, sempre poco ancorato alla realtà delle cose. Non è possibile soffermarsi qui su tutti i passaggi interessanti degli interventi contenuti in questo pregevole lavoro di Vicaretti, sebbene non possa essere tralasciato il racconto che Occhetto dedica alla personalità di Ingrao, formata certamente dalla resistenza, dall’antifascismo, ma anche segnata dalla Bolognina, in cui egli si oppose duramente e non senza lacerazioni personali alla morte del partito.
I due tratti caratteristici che l’ex segretario del Pds vede affiorare nella linea di Ingrao sono il rifiuto di ogni tipo di omologazione e una forte convinzione anticapitalista. Quest’ultima sensibilità, molto presente anche in democristiani del calibro di Amintore Fanfani, consolida l’idea storiografica di un Ingrao più prossimo al socialismo utopista che alla cultura marxista, esattamente l’opposto del cattolico Franco Rodano che restò sempre fedele al materialismo storico sia pure nella forma della democrazia progressiva.
In sintesi appare convincente la formula utilizzata con Vicaretti da Pasquino, che definisce Ingrao un “comunista innovatore”, una personalità al contempo carismatica, scomoda e mai addomesticata dalla logica di apparato.
In senso generale l’idea suggestiva che emerge dalla lettura di questo libro è collegata al ruolo positivo avuto dai partiti di massa nella storia italiana del Novecento, segnatamente Pci e Dc. Nella rigidità delle loro organizzazioni interne e nella durezza della politica vissuta come esperienza gerarchica e comunitaria, restava aperta la possibilità che si facessero strada, in ciascuna delle diverse opposte organizzazioni ideologiche, personalità sognatrici e idealiste come Ingrao o come Giorgio La Pira.
In fin dei conti, dunque, al di là dei diversi e talvolta alternativi modi di vedere il mondo, vinceva ovunque un modello politico non individualista, nel quale, come don Ciotti ha messo in risalto nelle pagine finali del libro, ogni lotta di liberazione, sia trascendente e sia immanente, finiva per rivelare un insopprimibile afflato ‘spirituale’, senza il quale la politica sarebbe restata schiacciata, in senso laico o in senso cristiano, in una pragmatica del potere, poco credibile e foriera di corruzione e meschinità, simile a quella che ci siamo trovati a vivere dopo Mani Pulite.
Tra le figure utopiche, dunque, quella di Ingrao si specifica come una spettacolare eresia della sinistra dentro la sinistra, un’originalità che è fedeltà onirica alla coscienza, e scommessa sul dubbio permanente e sul valore progressivo della diversità.