Skip to main content

Perché è sciocco protestare contro la scheda del referendum costituzionale

Renato Brunetta

Non è proprio andato giù, al variegato fronte del no, che la scheda del referendum costituzionale rechi un’indicazione parsa un succedaneo della campagna di Matteo Renzi: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente […] disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione, approvato dal Parlamento e pubblicato ecc“.

In questo caso, però, i contestatori hanno armi spuntate.

Intanto, c’è la legge n. 352 del 1970, disciplinante i referendum. Essa prevede, all’art. 16, la formula che, nel caso dei referendum costituzionali, è fatta propria dall’ufficio centrale presso la Cassazione. La quale Cassazione ha pari pari riportato il titolo della legge uscita dalle molteplici letture parlamentari. Chi si lamenta del fatto, deve prendersela con chi ha votato la riforma recante quel titolo. Guarda un po’, pure Fi lo votò in un primo tempo: quando passò al voto contrario, non si curò dell’intitolazione. Non è finita qui: nel caso di referendum ordinari, è previsto, con una riforma introdotta nel 1995, che l’Ufficio centrale stabilisca, “sentiti i promotori, la denominazione della richiesta di referendum da riprodurre nella parte interna delle schede di votazione, al fine dell’identificazione dell’oggetto del referendum”. Si volle evitare la formulazione di quesiti lunghissimi e di quasi impossibile immediata percezione nell’oggetto.

Chi si duole della dicitura odierna avrebbe dovuto prendersela, a suo tempo, con chi, Mario Monti in testa, introduceva nel linguaggio politico, parlamentare e perfino giuridico espressioni quali “decreto salva Italia”, che pure nel titolo formale era pomposamente auto elogiativo (numero 201 del 2001): “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”. Il governo Monti si era specializzato: il decreto-legge n. 179 del 2012 si occupava di “ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, con palese ridondanza rispetto al decreto-legge numero 83 del 2012 (“misure urgenti per la crescita del Paese”), mentre il decreto-legge numero 158 dello stesso anno pensava a “promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”. Il professore bocconiano ci teneva molto a rendere evidente la propria supposta opera per salvare l’Italia: la legge n. 92 del 2012 trattava di “riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.

Anche Renzi ha fatto il gradasso, nel suo costume, appellando “sblocca Italia” il decreto-legge n. 133 del 2014: “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive”. E possiamo aggiungere la propaganda attuata sotto la denominazione “la buona scuola”.

Chi, poi, rammenta il bruciamento delle leggi attuato, con falò pubblico, dall’allora ministro semplificatore Roberto Calderoli, potrà ricordare come questa azione legislativa fosse definita taglia-leggi (con un’eccezione: un decreto che fece rimanere in vita un cospicuo numero di provvedimenti fu chiamato salva-leggi).

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)


×

Iscriviti alla newsletter