Alla fine il vertice dei 5 stelle si è ricomposto. A Roma, Andrea Mazzillo, uomo di Virginia Raggi, farà l’assessore al bilancio, mentre Massimo Colomban, per nome e conto di Casaleggio, andrà alle partecipate. L’assessorato unificato, che fu di Minenna, sarà così diviso, come più volte anticipato dalla stessa Raggi. Disegno coltivato all’indomani delle prime dimissioni del dirigente Consob. Non tanto per esigenze funzionali, quanto per rendere possibile una distribuzione più ampia di poltrone.
Difficile dire se siamo di fronte ad un armistizio che precede la riconciliazione, dopo le frizioni dei giorni precedenti, o ad una pax armata. Al momento la parola d’ordine di Grillo in persona è: basta con le polemiche, andiamo avanti. Naturalmente i mal di pancia, specie per i trascorsi politici del primo, già nell’occhio del ciclone nella base grillina per la sua retribuzione, non mancano; ma ad essi si provvederà con abbondanti dosi di bromuro. Almeno fino alla possibile prossima crisi.
La caratura dei due personaggi è oggettivamente diversa. Ma questo conta poco. L’importante era uscire da una palude che rischiava di inghiottire l’intero movimento. Eppure, nonostante ciò, specie per quanto riguarda il bilancio, gli interrogativi restano. Metà del movimento romano è pronto a giurare sulle capacità tecniche del personaggio. L’altra metà si interroga.
Certo lo scarto tra un dirigente della Consob e ben due magistrati della Corte dei conti, rispetto al neo-nominato, resta rilevante. Se non altro per la differenza d’età. Ma non è questo il vero rovello. Possibile – ci si chiede – aver perso tutto questo tempo, se poi la soluzione era così a portata di mano? Perché scomodare personaggi eccellenti e poi bruciarli, quando il Mazzillo era lì e non chiedeva altro che d’essere utilizzato? Non era stato quello che aveva contribuito ad elaborare il programma politico del movimento?
Ed è allora che scatta un sospetto ancor più lancinante. E se il “prima” fosse stata tutta una messa in scena per far digerire ai duri e puri l’amaro boccone? Non si dimentichi le contestazioni che lo avevano colpito come semplice appartenente allo staff del sindaco. Un appannaggio rilevante, cambi di casacca nel suo peregrinare politico. Un pugno negli occhi per i predicatori della purezza a 5 stelle.
Fosse così, saremmo di fronte ad un machiavellismo degno della Prima Repubblica. Si espongono tanti falsi bersagli, per poi prendere tutti per stanchezza e portare a casa il risultato, sull’onda dell’emergenza. Si spiegherebbero così le mille bizzarrie. De Dominicis che dura in carica meno di 24 ore. Tutino che viene impallinato. Per non parlare di tutti gli altri che si erano proposti, su affidamenti – si pensi a Nino Galloni (famiglia illustre) – più o meno vaghi. Un polverone. Diradato il quale emerge dal cilindro il vero candidato, con buona pace dei suoi interni oppositori.
Una favola a lieto fine? Mica tanto. Per questi giochi, siano essi più o meno consapevoli, Roma paga un prezzo enorme. Il diktat di Grillo – niente Olimpiadi – ha piegato ogni possibile resistenza interna. Nonostante i mugugni dell’assessore all’urbanistica. Cento giorni sono trascorsi invano senza che nessuno si occupasse dei conti del Comune e dei necessari adempimenti non solo amministrativi. La macchina burocratica, già così scalcagnata, ha subito violenti contraccolpi. Come mostrano le presunte dimissioni del ragioniere generale e la lettera dei vertici dei vari dipartimenti.
Poi c’è la crisi dei municipi lasciati a se stessi. Quindi i ritardi di Atac (problema dei finanziamenti) e la crisi di Ama, con il coinvolgimento collaterale della Muraro. Insomma non c’é da stare allegri. Che almeno si completino anche le altre caselle, a partire dal Capo di gabinetto, per dare una parvenza di normalità. Di modo che sia consentito anche a noi di occuparci delle cose serie – il governo della città – invece di inseguire pettegolezzi da “strapaese”.