Già preceduto da iniziative di avvocati minori, il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida ha impugnato davanti al Tar del Lazio e al tribunale di Milano il decreto del presidente della Repubblica che, su proposta del governo, ha indetto per il 4 dicembre il referendum confermativo sulla riforma della Costituzione.
Onida, definito dal Manifesto per i suoi trascorsi alla Consulta “un pezzo da novanta”, come il suo collega Gustavo Zagrebelsky, anch’egli schierato sul fronte referendario del no, per cui saremmo ormai a una bocca di fuoco da 180, con la sua doppia mossa intende portare la questione del cosiddetto “spacchettamento” davanti alla Corte Costituzionale. Cui si può accedere solo attraverso un organismo giudiziario o paragiudiziario. Che non potendo risolvere da solo un dubbio di legittimità costituzionale deve rivolgersi alla Corte del palazzo della Consulta, dirimpettaio del Quirinale. Dove Onida può ancora contare in cuor suo, senza che ciò naturalmente possa essere scambiato per una colpa o addirittura un reato, su amici ed estimatori, anche se obiettivamente fa una certa impressione che un presidente della Corte vi torni in qualche modo, sia pure non direttamente, ma attraverso organi giudiziari, stando metaforicamente dall’altra parte del banco.
Il fronte del no contesta da tempo, pur avendo fallito i tentativi di fare arrivare la questione davanti alla Corte di Cassazione, la decisione presa appunto dalla Cassazione di chiamare gli elettori alle urne con un unico quesito sulla riforma, per dire sì o no al complesso della legge approvata dalle Camere, di cui è riportato sulla scheda il titolo uscito dal Parlamento, comprensivo di cinque aspetti. Che sono la riforma del bicameralismo con un Senato senza diritto di fiducia o sfiducia al governo e con di meno di cento fra consiglieri regionali e sindaci non retribuiti, l’abolizione delle province, l’abolizione del Cnel, la conseguente riduzione delle spese istituzionali e una nuova definizione dei compiti delle regioni e dei loro rapporti con lo Stato, oggi motivo di numerosi ricorsi alla Corte Costituzionale.
Il quesito unico, secondo Onida, non ha la cosiddetta “omogeneità” richiesta ai quesiti dei referendum sia per abrogare una legge ordinaria o parti di essa sia per confermare una legge di modifica della Costituzione approvata dalle Camere senza la maggioranza dei due terzi dei voti dei loro componenti. Pertanto, secondo i ricorrenti, se cinque sono i punti della riforma, cinque debbono essere i quesiti. In ciascuno dei quali andrebbero indicati espressamente gli articoli toccati dalle modifiche.
Cinque quesiti comportano naturalmente cinque risultati, diversi l’uno dall’altro, per cui potrebbero risultare diversi, secondo i casi, anche i vincitori e gli sconfitti. Peccato però che il Parlamento abbia inteso in modo differente da Onida la cosiddetta “omogeneità” approvando la riforma con un unico provvedimento, evidentemente inteso come omogeneo, al pari di quanto fece nel 2005 con la riforma promossa dalla maggioranza di centrodestra e bocciata l’anno dopo col referendum.
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Il primo effetto di un eventuale ricorso degli organi giudiziari alla Corte Costituzionale, o di una sospensiva del decreto presidenziale di indizione del referendum, su cui il Tar del Lazio risulta già convocato per il 17 ottobre su richiesta di altre parti, sarebbe prevedibilmente un allungamento ulteriore dei tempi della consultazione elettorale.
La prospettiva di un rinvio del referendum potrebbe tradire, cioè smentire, la certezza della vittoria ostentata dal composito, contraddittorio, per niente omogeneo fronte del no referendario, esteso da Beppe Grillo a Silvio Berlusconi, da Nichi Vendola a Matteo Salvini, da Gaetano Quagliariello a Giorgia Meloni, da Antonio Ingroia a Renato Brunetta, per non parlare di quel terzo abbondante del Pd già schierato o attratto da quel fronte in funzione tutta anti-renziana, come l’ultima o la più preziosa occasione per liberarsi di un leader che considera praticamente un intruso, che va sempre “dove lo porta il cuore”, cioè a destra, come gli rimprovera l’ex segretario del partito Pier Luigi Bersani. Il quale è tanto deciso a combatterlo, in quella specie di congresso continuo ch’egli considera il dibattito politico fra i compagni, da avere avvertito gli amici tentati dalla scissione che lui dal Pd, per continuare a contrastare Renzi dall’interno, uscirebbe solo per mano militare.
A Bersani e a tutti gli altri di provenienza comunista ha dato nelle ultime ore la più sferzante e stringente risposta un loro compagno di lotte che non si può onestamente liquidare come un personaggio minore della storia del vecchio Pci: Claudio Petruccioli, già direttore dell’Unità, già capogruppo al Senato, già presidente della Rai, già braccio destro, o qualcosa di simile, di Achille Occhetto, l’ultimo segretario del partito della falce e del martello: quello della storica svolta della “Bolognina”, sfociata nel cambiamento del nome e del simbolo della formazione politica guidata prima di lui da Alessandro Natta, Enrico Berlinguer, Luigi Longo, Palmiro Togliatti. Un Occhetto sconfitto nelle elezioni del 1994 da Silvio Berlusconi, rimosso ruvidamente da Massimo D’Alema e dispersosi infine nell’eterno movimentismo della sinistra. Dove giustamente Petruccioli non lo ha seguito.
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Ai vari Bersani, D’Alema e Alfredo Reichlin, l’ex senatore Petruccioli ha rimproverato di avere “un atteggiamento totalitarista”, di sentirsi “custodi di una ortodossia tanto vagheggiata quanto inesistente”, di sentirsi gli unici e più genuini “depositari della tradizione del Pci”, di essere “custodi del Santo Graal della sinistra”, di ritenere che la sinistra italiana è solo quella dove loro si trovano o si collocano di volta in volta, non rendendosi conto di esserne ormai diventati “un enfisema”, che è notoriamente una patologia ostruttiva dei polmoni.
Petruccioli sarà naturalmente liquidato dai suoi vecchi compagni come un renziano, o giù di lì, al pari del povero Piero Fassino, l’ex sindaco di Torino e ultimo segretario dei Democratici di sinistra, ultima versione a sua volta del vecchio Pci, ma intervenuto nella recente riunione della direzione del Pd per sostenere la riforma costituzionale e il segretario, nonché presidente del Consiglio. Che Zagrebelsky è tornato ad accusare su Repubblica, in polemica col fondatore Eugenio Scalfari, di perseguire con la sua riforma il modello oligarchico della democrazia, il cui passaggio successivo sarebbe solo una dittatura.