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Come evitare che la polizza anti terremoti diventi una nuova tassa

Edmund Burke Daniele Capezzone, mattarellum

La terra trema ancora, e mentre viene un’altra prova di dignità dai cittadini colpiti nel centro Italia, inevitabilmente la discussione politica torna sulle possibili risposte da dare.

Già altre volte, dalla terribile notte di Amatrice in poi, ho avanzato qui le mie proposte.

E’ evidente che per la ricostruzione delle grandi opere d’arte, degli edifici pubblici, per le grandi opere di soccorso, per dare al più presto un’abitazione prefabbricata provvisoria a decine di migliaia di sfollati, occorrono spese su cui occorre forzare la mano in Ue: è ovvio che queste spese debbano essere scomputate dai parametri del rapporto deficit/Pil.

Tuttavia, caro Renzi, resta chiaro che quei soldi debbano andare effettivamente per la ricostruzione: non solo a Bruxelles, ma pure a Roma, in tanti temono invece che Palazzo Chigi, una volta asciugate le sincere lacrime di queste ore, con altrettanta sincerità poi pensi essenzialmente a misure-spot di natura pre-elettorale…Occorrerà vigilare.

Resta comunque un’amarezza per chi, come noi, è sempre stato contro questi vincoli europei e certe rigidità. E mi riferisco alla schizofrenia di Renzi: che ha spesso urlato contro tutto questo, ma poi ha sempre detto sì ai diktat di Berlino e Bruxelles, salvo pietire qualche “zero virgola” solo per le sue mance elettorali. Sta qui la contraddizione, che politicamente resta tutta sulle spalle del Primo Ministro italiano.

Quanto invece al “secondo tempo” della partita del terremoto, e cioè la manutenzione ordinaria, la messa in sicurezza futura delle aree oggi non colpite, serve una risposta diversa e intelligente. Non si tratta, a mio parere, di imporre obblighi, e meno che mai di massacrare proprietari di immobili che sono già ipertassati, ma – al contrario – di usare la leva fiscale per incentivare la messa in sicurezza degli edifici.

Guai se invece la pur nobile spinta emotiva di questi mesi si traducesse in una sorta di “nuova Imu” (variamente presentata o mascherata), di un’ulteriore tassazione a carico dell’80% di famiglie italiane proprietarie di una casa, accompagnata da altri oneri e appesantimenti burocratici.

Vale anche per l’assicurazione obbligatoria: senza adeguati sgravi fiscali (che però costano: nel caso, meglio finanziare quelli che non gli 80 euro o altri “regalini” elettorali), sarebbe una nuova tassa pesantissima e insostenibile per i proprietari. E’ bene dirlo subito, anche sfidando l’impopolarità di un momento.

Stesso discorso per il mitologico “fascicolo del fabbricato”, del quale ciclicamente si riparla. Ma a cosa serve un altro “pezzo di carta”, l’ennesimo? Il problema italiano non è quello di chiedere un certificato in più (e fatalmente tutta l’attenzione si sposterebbe sul mero possesso del certificato, indipendentemente dal reale stato dell’edificio). Anziché puntare sul formalismo, occorre incidere sulla sostanza: e cioè rendere economicamente conveniente per i proprietari fare davvero i lavori di ammodernamento.

Ecco perché, in una logica liberale, non si tratta di varare “piani quinquennali” o forsennati progetti di spesa pubblica. Ma – attraverso la leva fiscale – di determinare un favor/incentivo al “rinvigorimento” degli immobili non in regola dal punto di vista antisismico e della sicurezza.

Sarebbe una gigantesca operazione di messa in sicurezza, di creazione di lavoro, di rimessa in moto dell’economia. Ma non va fatta né con mostruosi piani di spesa pubblica, né tartassando in modo indiscriminato chi ha il “grave torto” (per il fisco italiano) di possedere una casa.


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