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Come procede la problematica compagna per riprendere Raqqa all’Isis

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Domenica scorsa i curdi siriani hanno voluto affidare alla comandante delle Ypj Cihan Sikh Ahmed l’annuncio con cui hanno dato il via allo scacco finale verso Raqqa, città del nord siriano, seconda più importante roccaforte dello Stato islamico. Dopo Mosul, anche l’altro bastione statuale del Califfato finisce sotto un’offensiva congiunta che vede i miliziani curdi coagulati nelle Syrian Democratic Forces (SDF) ricevere appoggio dall’alto e dai consulenti a terra americani. “Lo sforzo di isolare, e, infine, liberare, Raqqa segna il passo successivo nel nostro piano di campagna di coalizione”, ha commentato il capo del Pentagono Ash Carter; linea è stata sostenuta subito anche dal ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian che ha parlato di passaggio “necessario” a questo punto. Più problematica la situazione locale e regionale.

IL SIMBOLO

Quella contro l’IS è una guerra in cui i simboli contano, per questo quello di Cihan è il volto dell’offensiva. Una donna che annuncia la missione che andrà a stanare il Califfo da un territorio occupato decine di mesi fa, rivendicato da sempre dal popolo curdo. Una comandante che andrà a guidare i combattimenti contro un sistema di potere sharitico dove le donne sono ricondotte a elementi marginali della società – schiave è il termine di un’altra èra che insieme a Califfato abbiamo ricominciato a maneggiare oggi. Successe con l’epica battaglia di Kobane, sempre nel Kurdistan siriano, ma più a ovest: fu allora che le guerrigliere curde divennero uno dei diversi simboli di questa guerra.

LA CAMPAGNA

In breve, l’analisi tattica: quella annunciata domenica è la fase 2 della missione, l’isolamento delle linee di comunicazione della città. Preceduto dalla campagna di bombardamenti mirati a sfiancare le principali linee difensive dei baghdadisti (fase 1), questo step sarà seguito dalla vera e propria reconquista, una battaglia per le vie cittadine che sarà complicatissima, con cecchini e trappole esplosive disposte ovunque (un esempio, vedere quello che è successo a una troupe della Cnn a Mosul, embedded con le forze speciali irachene appena entrate tra le vie di un quartiere periferico). Un funzionario informato sulle vicende siriane ha però fatto una dichiarazione piuttosto esplicita alla Reuters che segna indelebilmente la situazione: “Non c’è nessuna forza al momento in grado di prendere Raqqa nel prossimo futuro”, affermazione confermata da altre sette fonti interne.

I RAPPORTI CON I TURCHI

Anche le parole di Carter e le tempistiche sono simboliche. “Campagna di coalizione” dice il segretario alla Difesa, senza passare minimamente su una scelta che potrebbe segnare anche il futuro della regione e delle relazioni internazionali americane. La decisione di anticipare i movimenti – figlia forse della volontà dell’anatra zoppa, ma ben armata, Barack Obama, che ha in testa di lasciare la liberazione, complicata, delle due roccaforti califfali come legacy – cozza con gli interessi turchi. Ankara, che ha già gli stivali in Siria con la missione anti-Califfo Scudo dell’Eufrate, un mese fa s’era proposta come fidato alleato per andare a Raqqa. In dote avrebbe portato una logistica senza eguali, il lunghissimo confine, oggetto continuo di ammassamenti di convogli militari; sul piatto una sola richiesta: niente curdi nella partnership. La stessa campagna Scudo ha come fine la deterrenza verso i curdi siriani, che come contraccambio del valore dimostrato contro i baghdadisti hanno avuto la possibilità di allargare i propri territori e rendere più palpabile l’annoso sogno del Rojava, lo stato indipendente al nord della Siria. La Turchia però vuole bloccarli, perché li considera terroristi alleati al Pkk (per ricostruire questi giorni passati, con i leader politici arrestati senza colpe, e per capire il clima anti-curdi nel paese del Bosforo, un link). Il timore è che un loro ampliamento – geografico e politico – possa fare da precedente infiammabile per la situazione interna, già ardente. Lunedì il presidente Recep Tayyp Erdogan ha definito “ingenua” la decisione di affidarsi ai miliziani curdi per riprendere Raqqa: “Si attacca Daesh (l’acronimo arabo dell’Isis, ndr) con un’altra organizzazione terroristica”, ha detto, “l’uso di forze non arabe per liberarla non contribuirà alla pace” e “serve che partecipino stati legittimi con le loro forze armate” (un’idea su chi stato dovrebbe giocare un ruolo importante, forse Erdogan ce l’ha già).

LE RASSICURAZIONI AMERICANE

Domenica in Turchia c’era Joseph Dunford, capo delle Forze Armate americane. Una visita non programmata (probabile invece che l’annuncio dei curdi sia stato concordato con Washington, con cui i combattenti delle SDF hanno un canale operativo aperto), che il New York Times ha definito senza ricorrere a retroscenismi “una mossa per placare le preoccupazioni turche”. Il top ufficiale americano ha avuto un confronto con Hulusi Akar (neo-omologo locale post golpe) per valutare i piani di battaglia per Raqqa, ha detto il portavoce del generale. Si cerca “un giusto mix di forze” prima di arrivare alla città vera e propria, ha spiegato. Ossia, il generale ha cercato di rassicurare i turchi che i curdi delle SDF si limiteranno alle operazioni della fase attuale dell’offensiva, quelle che cercheranno di impedire l’afflusso di rinforzi verso la roccaforte: una strategia molto simile a quella prevista dalla campagna di riconquista di Mosul con le famigerate milizie sciite – i collegamenti tra le due operazioni sono molteplici. Questo in teoria. Perché in realtà gli americani sono ancora impegnati nel tentativo di creare un contingente quanto più inclusivo possibile: un portavoce dei militari statunitensi in Iraq, il colonnello John Dorrian, ha fatto riferimento a 30/40 mila combattenti che potrebbero raggiungere la città, e ha parlato di uno scouting continuo che gli uomini inviati dal Pentagono stanno facendo per portare al training quanti più arabi possibile. Ma ancora ne mancano, e di quelli già pronti non tutti ancora hanno ricevuto la giusta formazione militare; e tornano alla mente le parole dei funzionari anonimi della Reuters sull’impreparazione delle forze di liberazione. Su tutto il rischio è che le ambizioni curde – che tra i combattenti sono i più preparati – non collimino con il futuro, e che Ankara si metta di traverso militarmente.

Il guaio vero sta però in un grande problema di diritto, perché istituzionalmente quel territorio occupato dallo Stato islamico è sotto il regime di Damasco: e che ne sarà poi? Chi sarà a governarlo una volta liberato?

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