E’ la principale tra le novità introdotte dalla riforma costituzionale Renzi–Boschi su cui gli italiani si esprimeranno nel referendum del prossimo 4 dicembre. Una modifica che riguarda l’assetto dei rapporti tra lo Stato e le autonomie locali. Da un lato, infatti, la Costituzione riformata mette fine al cosiddetto bicameralismo perfetto con la creazione di un Senato rappresentativo dei territori, mentre – dall’altro – pone mano alla distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni in favore del primo e a svantaggio delle seconde. Tematiche che Formiche.net affronta in questa intervista con il costituzionalista ed ex ministro Francesco D’Onofrio che si prepara a votare convintamente Sì al referendum di domenica prossima.
Il nuovo Senato sarà formato da sindaci e consiglieri regionali, a proposito dei quali molti ritengono siano privi della legittimazione necessaria a svolgere anche il ruolo di senatore. Che ne pensa?
Innanzitutto non è affatto detto che manchi l’esplicita legittimazione popolare espressa tramite il voto. Bisognerà infatti vedere cosa prevederà concretamente la legge sull’elezione dei senatori da approvare dopo l’eventuale prevalenza dei Sì. E, in ogni caso, non mi pare sia un tema così rilevante: l’importante è che i nuovi membri del Senato possano considerarsi pienamente rappresentativi del loro territorio. Questa è la logica che sovraintende alla creazione della nuova camera delle autonomie, a cui il testo della riforma è pienamente rispondente.
I sostenitori del No affermano che il testo della Costituzione riformata non consenta poi di introdurre tramite legge ordinaria la possibilità di esprimere le preferenze per l’elezione del nuovo Senato. E’ così?
E’ un argomentazione di lana caprina, da azzeccagarbugli: è vero che il nuovo articolo 57 stabilisce che sono i consigli regionali ad eleggere i senatori tra i loro componenti. Tuttavia ciò non esclude che alle urne i cittadini possano anche essere chiamati ad esprimere la loro preferenza.
Ma non ci sarebbe il rischio di un giudizio di incostituzionalità da parte della Consulta?
E perché mai? Non vi sarebbe assolutamente contraddizione: in un caso del genere i consigli regionali finirebbero con il confermare – tramite l’elezione da svolgersi al loro interno – i nomi già decisi dai cittadini il giorno del voto.
Come valuta a tal proposito il cosiddetto disegno di legge Chiti-Fornaro?
Sono pienamente favorevole. Approvo in toto la soluzione che questo ddl adotta. Se i Sì dovessero prevalere e se questa proposta normativa si trasformasse in una legge vera e propria, ai cittadini – al momento delle elezioni regionali – verrebbero consegnate due schede: la prima per scegliere i consiglieri regionali, la seconda per indicare i nomi di chi si vorrebbe membro del nuovo Senato. Mi sembra un ottimo modo per far convivere le esigenze della rappresentanza con quelle della valorizzazione delle autonomie.
I fautori del No lamentano che la nuova composizione del Senato finirebbe con il dare ancora più importanza alla peggiore classe politica italiana: i consiglieri regionali. Come risponde?
E’ un argomento di tipo demagogico che non condivido affatto. Non esiste una classe politica regionale o comunale astrattamente peggiore. Bisogna verificare caso per caso, non si può fare di tutta l’erba un fascio perché vorrebbe dire cedere alle ragioni del populismo. Non c’è alcuna norma che impedisca ai presidenti di regione di svolgere anche il ruolo di senatore. Ciò premesso, mi chiedo: si può pregiudizialmente ritenere che i governatori rappresentino la peggiore politica italiana? Direi proprio di no.
Ma concretamente il nuovo Senato come funzionerà considerando che i suoi membri avranno anche un altro “lavoro”? Mi riferisco anche ai lavori d’aula e delle commissioni.
Le obiezioni che si stanno muovendo sul punto partono da ciò che il Senato ha fatto finora. Se, però, la riforma sarà confermata, il suo funzionamento inevitabilmente cambierà moltissimo. Sarà quindi costruito un nuovo sistema – diverso dal precedente – che terrà conto delle ridotte funzioni di cui la seconda camera sarà titolare. Immagino che le soluzioni concrete saranno tali da rendere compatibile l’impegno di consigliere regionale con quello di senatore.
C’è chi ritiene che questa riforma abbia un vizio di coerenza visto che da una parte istituisce il nuovo Senato delle autonomie, mentre – dall’altra – sottrae competenze legislative alle regioni per affidarle allo Stato. Condivide?
Non c’è alcuna contraddizione a mio avviso, ma anzi una consequenzialità. E’ opportuno che – in particolare su certe materie, come la salute e le grandi infrastrutture – lo Stato si riappropri delle competenze di cui si era spogliato nel 2001. D’altro canto le istanze dei territori troveranno finalmente una degna rappresentanza in Parlamento con la creazione del nuovo senato. L’attenzione ai territori si misura su questo e non sulla licenza a fare come gli pare su argomenti di chiaro interesse nazionale.
Qual è dunque, a suo modo di vedere, il disegno complessivo che da questo punto di vista la riforma persegue?
E’ la ricerca di un equilibrio efficiente, che in tutti questi anni non è stato ancora trovato. Non ce l’aveva il testo originario della Costituzione – troppo statalista – e non ce l’ha neppure l’attuale che, al contrario, è troppo federalista. Ciò, però, non vuol dire che si tratti dell’equilibrio definitivo. Le costituzioni – come dimostrano anche gli esempi di Francia e Germania – possono anche essere ripetutamente modificate quando reali esigenze fattuali lo richiedano.
E quale pensa possa essere l’approdo finale?
La creazione di un meccanismo che si fondi sulle cosiddette macro-regioni. A mio avviso – per varie ragioni – dovrebbe essere quella la soluzione finale. Ma il passaggio intermedio rappresentato da questa riforma è fondamentale.