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Ecco come i magistrati bisticciano per la legge Bindi sui testimoni di giustizia

In Parlamento si torna a parlare di testimoni di giustizia. L’occasione è la nuova legge sui testimoni che porta la firma di Rosy Bindi ma vede un accordo di massima da parte di tutte le forze politiche. Si tratta della prima legge solo per i t.d.g: quella in vigore, la num. 45 del 2001, è solo un corollario della norma sui collaboratori di giustizia, che risale al 1991, la legge num. 82 voluta da Giovanni Falcone. Ora, invece, arriva questa nuova norma ad hoc messa a punto dalla presidente della commissione antimafia, che però è stata criticata da diversi magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, come si è visto nelle due audizioni andate in scena in Senato nell’ultima settimana.

La legge vuole risolvere la confusione che a volte si è generata tra testimoni e collaboratori. Questi ultimi sono criminali pentiti, affiliati a organizzazioni criminali che a un certo punto si pentono e iniziano a collaborare con la giustizia, godendo anche dei benefici previsti dalla legge. Il testimone, invece, è un normale cittadino che assiste a un episodio criminoso e lo denuncia; o essendo a conoscenza di determinate informazioni che gli vengono dal contesto in cui vive decide di rivelarle alle forze dell’ordine; oppure è una vittima di un reato, solitamente estorsione, che decide di ribellarsi e di aiutare la giustizia incriminare i suoi persecutori. Un cittadino che non avendo commesso alcun reato (ma spesso essendone vittima) decide di collaborare con lo Stato fornendo informazioni utili alle indagini, mettendo così in pericolo la propria vita e quella dei propri cari.

I casi più eclatanti sono quelli di Libero Grassi e Lea Garofalo. Chi diventa testimone di giustizia, date le minacce e i pericoli cui è esposto, entra in un programma di protezione diviso in tre gradi, di cui il più radicale è lo spostamento in località segreta con falsa identità e uno stipendio da parte dello Stato a titolo di mancato guadagno. Il più delle volte, però, i testimoni hanno la vita rovinata, anche perché non riescono più a svolgere la loro attività nel luogo da cui provengono. Anche per questo motivo in Italia le denunce sono in calo rispetto al passato: i testimoni attualmente sono solo 76, di cui 58 vittime di usura e estorsione. Proprio negli ultimi giorni Luigi Coppola, un testimone di giustizia napoletano, è stato costretto a chiudere definitivamente la sua attività imprenditoriale, un autosalone, perché nessuno andava più a comprare le auto da lui. Quello con cui si devono scontrare, infatti, non sono solo i criminali, ma l’indifferenza e a volte la connivenza degli altri cittadini.

“La legge delinea innanzitutto un identikit del testimone di giustizia, spiega chi può essere definito in questo modo. In secondo luogo, annulla le disparità di trattamento economico a seconda del programma di protezione: la decisione spetterà al giudice a secondo dei casi. Infine, introduce la figura del referente: un tutor che segue dall’inizio alla fine la storia personale di ogni testimone”, spiega Davide Mattiello, deputato Pd tra i maggiori sostenitori della riforma. Ma proprio il tutor è uno degli aspetti più criticati da parte di magistrati e forze dell’ordine. Anche perché la riforma non spiega se questa figura dovrà essere un poliziotto, un magistrato o una sorta di consulente legale. “Invece del tutor facciamo funzionare meglio il programma protezione testimoni. E poi chi dovrebbe scegliere o selezionare queste persone?”, osserva il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. “La figura di un referente unico è positiva proprio perché il programma di protezione non funziona. Quindi ben venga il tutor”, sottolinea invece il procuratore di Torino, Armando Spataro.

Ma c’è anche chi critica l’introduzione stessa della figura del t.d.g. “La figura del testimone è già regolata dall’art. 351 del codice penale, introdurre una nuova categoria è inutile e può generare confusione. Da cosa i testimoni di giustizia si distinguono dagli altri testimoni?”, si chiede Francesco Greco, della procura di Milano. Sotto accusa anche la tipizzazione del reato. “Differenziare i testimoni a seconda dei possibili reati su cui riferiscono mi sembra molto complicato. Vorrebbe dire entrare troppo nel dettaglio e questo non dovrebbe essere il compito di una legge”, fa notare Michele Prestipino, il numero due di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma.

Per altri magistrati, come Cafiero de Raho (procura di Napoli), invece, la legge è soddisfacente sotto molti punti di vista, compreso quello di non scendere troppo nel dettaglio, perché “la norma deve dare un quadro generale, saranno poi le procure a scendere nel particolare, a seconda dei casi”. Discussione c’è anche sui tempi delle rivelazioni, che non possono essere date a tare, e sulla protezione ai testimoni. “Se un testimone è in pericolo di vita, lo è per sempre e non solo per alcuni anni”, sottolinea Roberti. Insomma, l’iter della proposta di legge è appena iniziata e già divide politici e magistrati. Saranno le premesse giuste per arrivare a un buon testo?

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