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Quali sono i limiti della riforma costituzionale?

autonomia

PER IL SI’

Roberto Bin (Diritto costituzionale Università di Ferrara)

“Il limite più evidente sta nello stravolgimento del Senato rispetto alla proposta avanzata dal Governo. Un Senato composto dai presidenti delle Regioni e da sindaci di Comuni importanti – come delineato dal d.d.l. governativo –  avrebbe potuto rappresentare con efficacia i territori, apportando per di più nel procedimento di formazione delle leggi l’esperienza dei soggetti che guidano le amministrazioni su cui poggia in massima parte il compito di eseguirle. Optando invece per un’elezione di secondo grado in seno ai Consigli regionali, il Senato futuro, voluto dal Senato attuale, perde entrambe le funzioni: in Senato approderanno le spaccature politiche che dividono i consigli regionali e agiranno politici locali che non svolgono funzioni di Governo (a parte la trascurabile rappresentanza dei sindaci); i senatori si divideranno per appartenenze politiche, non per diversità degli interessi dei loro rispettivi territori; il Senato non avrà l’autorità di esprimere gli interessi e le opzioni politiche delle Regioni”.

Beniamino Caravita (Istituzioni di diritto pubblico La Sapienza)

“A causa di una insuperabile sindrome che vede nel rafforzamento dell’esecutivo i prodromi dello scivolamento verso modelli autoritari, vi è stato scarso coraggio nel rafforzare la posizione del Governo in Parlamento, giacché l’unico strumento in questa direzione è la corsia preferenziale per le iniziative legislative governative. Ancora una volta, quindi, ci si affida alle virtù taumaturgiche della legge elettorale, le quali potrebbero non essere sufficienti. Sotto un altro profilo, il procedimento legislativo sconta qualche incertezza, confusione, sovrapposizione, tipiche comunque di tutti gli Stati composti, a struttura federale o regionale. I regolamenti parlamentari di Camera e Senato avranno in ogni caso importanti spazi di integrazione e correzione”.

Stefano Ceccanti (Diritto pubblico comparato La Sapienza)

“Il limite principale è, oltre alla delicata questione del quorum eccessivo per eleggere il capo dello Stato, il mancato intervento sugli articoli relativi alla forma di Governo (revoca, sfiducia e scioglimento), eccezion fatta per l’importante eliminazione del Senato dal circuito fiduciario. Le esigenze di stabilità e di efficienza ricadono solo sulla nuova legge elettorale che semplifica al massimo la nascita del Governo ma che di per sé sola non è tale da rafforzare il Governo durante la Legislatura, escludendo a priori il ricorso tradizionale alla stampella presidenziale”.

Giulio Enea Vigevani (Diritto costituzionale Università di MIlano Bicocca)

“La fine del bicameralismo paritario rappresenta una risposta a una questione lasciata sostanzialmente aperta dal Costituente. La soluzione adottata per la composizione del Senato non pare tuttavia particolarmente felice, specie a seguito dell’approvazione dell’emendamento dell’ultimo minuto che collega l’elezione dei senatori alle scelte espresse dagli elettori alle elezioni regionali. Tale novità rafforza il rischio che i senatori agiscano quasi esclusivamente secondo le appartenenze politiche, vanificando quella funzione di rappresentanza delle istituzioni territoriali che presuppone la selezione indiretta dei componenti della Camera alta. Non mi sembrano, poi, da condividere alcune derive populiste, in relazione ai costi della democrazia, l’irragionevole crescita del divario tra i poteri delle Regioni speciali e di quelle ordinarie, proprio mentre le ragioni della specialità tendono a scomparire e la presenza degli ex Presidenti e dei cinque parlamentari di nomina presidenziale al Senato. Spicca anche l’assenza di alcuni interventi di manutenzione che apparivano a molti opportuni, quali la riforma della verifica dei poteri e l’introduzione del divieto di rielezione del Capo dello Stato”.

PER IL NO

Paolo Caretti (Diritto costituzionale Università degli Studi di Firenze)

“Molti. Tra questi citerei il pasticcio fatto in relazione all’elezione del nuovo Senato, l’obbligo del doppio incarico per i senatori, l’espansione eccessiva delle competenza del Senato diverse da quella legislativa (in una parola, affidamento di competenze sulla carta forti ad un organo che si presenta strutturalmente debole). A ciò si aggiunga l’inidoneità dei nuovi criteri di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni a risolvere il problema per il quale, almeno formalmente, si è deciso di mettere mano a questo aspetto (ossia il problema dell’eccessivo contenzioso). Al riguardo basti considerare gli interrogativi interpretativi che si porranno nei numerosi casi in cui allo Stato spetta di dettare le norme «generali e comuni» in materie di competenza anche regionale, la riesumazione del limite dell’interesse nazionale e la definizione dei settori di competenza regionale non più con riferimento a specifiche materie, ma a funzioni (sviluppo economico del territorio; programmazione delle infrastrutture) e dunque secondo un criterio finalistico che non agevolerà certo una maggiore chiarezza nella distinzione tra il ruolo del legislatore statale e di quello regionale”.

Andrea Pertici (Diritto costituzionale Università di Pisa)

“I limiti sono numerosi. Anzitutto, la trasformazione del Senato, rispetto alla quale sin dalle prime dichiarazioni pubbliche che annunciavano una nuova riforma costituzionale emerge che l’accento non è posto sulla rappresentanza degli enti territoriali, ma sul fatto che i senatori non siano più eletti (e pagati). In effetti, tenuto fermo quest’obiettivo, la composizione ha cambiato alcune formulazioni che mai hanno evidenziato l’esigenza di una migliore rappresentanza delle istituzioni territoriali, per la quale talvolta è stato tentato un parallelo col Bundesrat, con il quale il Senato di cui alla revisione in parola non ha evidentemente nulla a che fare. Il Bundesrat, infatti, è composto da membri dei Governi dei Länder, che li nominano e li revocano e ha un numero di voti (da tre a sei) che possono essere espressi soltanto unitariamente. Il nuovo Senato italiano sarebbe composto da 74 consiglieri regionali e 21 sindaci eletti dai Consigli regionali «in rappresentanza delle istituzioni territoriali». La presenza dei sindaci, non prevista da altre Costituzioni, non è in rappresentanza dei Comuni essendo questi eletti dai Consigli regionali, senza alcun criterio di rappresentanza territoriale. Per quanto riguarda i consiglieri regionali non sono stati introdotti criteri per assicurare una rappresentanza istituzionale (ad es., né la presenza del Presidente né un voto unitario per Regione) e anzi la previsione del metodo proporzionale (inattuabile per le Regioni che eleggono uno o due consiglieri oltre al sindaco) sembrerebbe confermare che si realizzerebbe una rappresentanza politica con la quale sarebbe coerente l’elezione diretta. Senza considerare, infine, l’esotica presenza di senatori nominati per sette anni dal Presidente, in numero pari o inferiore a cinque, i quali non rappresentano né la nazione (come oggi tutti i parlamentari e, secondo il testo di revisione, i soli deputati) né le istituzioni territoriali (come gli altri 95), pur essendo inseriti in un’assemblea che queste ultime dovrebbe rappresentare. Ma la confusa composizione del Senato si ripercuote sulle sue funzioni, affastellate nel revisionato art. 55 Cost. in modo assai ottimistico (data la potenziale ampiezza di alcune, come quella di valutazione di tutte le politiche pubbliche), impreciso e alluvionale oltre che incoerente con la pretesa rappresentanza delle istituzioni territoriali. Mentre, poi, le altre funzioni rimangono del tutto indefinite, quella legislativa è resa ardua da una pluralità di procedimenti legislativi, nessuno strumento in grado di assicurare l’accordo delle due Camere e concreti rischi di conflitti tra le stesse, con conseguente valorizzazione della funzione legislativa del Governo anche attraverso la richiesta alla Camera di un voto entro settanta giorni sui propri d.d.l. Inoltre, un Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali dovrebbe collegarsi alla valorizzazione delle funzioni delle stesse. Al contrario, la revisione procede a una significativa centralizzazione di alcune materie, elimina la competenza concorrente (da valorizzare, invece, con una Camera in cui sono presenti i legislatori regionali) e introduce una forte clausola di supremazia statale attivabile dal Governo. Neppure l’obiettivo della riduzione del numero dei parlamentari è stato adeguatamente centrato. Anziché diminuire ragionevolmente i componenti di entrambe le Camere (e le loro indennità) si è ridotto il Senato a circa un terzo, mantenendo una pletorica Camera dei deputati, alterando così anche la composizione del Parlamento in seduta comune. Infine, manca una valorizzazione della partecipazione: rispetto all’iniziativa legislativa popolare non si introducono tempi certi di discussione e approvazione, per il referendum abrogativo l’abbassamento del quorum avviene soltanto a fronte di un significativo aumento dei richiedenti, i referendum propositivi e «d’indirizzo» sono rinviati totalmente alla disciplina di una legge costituzionale e di una ordinaria di attuazione”.

Barbara Pezzini (Diritto costituzionale Università degli Studi di Bergamo)

“Dal punto di vista del metodo, una identificazione davvero troppo stretta tra il piano dell’indirizzo di governo ed il piano costituzionale; nei contenuti, l’assenza di elementi di contrappeso ed equilibrio istituzionale adeguati al rafforzamento del Governo”.

Giovanni Tarli Barbieri (Diritto costituzionale Università degli Studi di Firenze)

“I limiti principali (ma non certo gli unici) attengono, in primo luogo, all’ambigua configurazione del «nuovo» Senato, che ad oggi appare uno strano ibrido non pacificamente riconducibile alla ratio della sua istituzione perché, per le modalità della sua elezione (da parte dei Consigli regionali, ma con criteri che dovrebbero ispirarsi anche alla volontà espressa dagli elettori nelle consultazioni regionali), per lo status degli eletti (assenza di vincolo di mandato e riconoscimento pieno delle guarentigie di cui all’art. 68 Cost.), potrebbe ben atteggiarsi come una sorta di Camera politica svincolata dal rapporto fiduciario. La disciplina del procedimento legislativo, «sfarinato» in più tipi diversi, appare di difficile interpretazione ed attuazione, con il rischio serio di produrre un contenzioso costituzionale inedito per il nostro Paese. La riforma del Titolo V, e in particolare dell’art. 117 Cost., partendo da due assunti discutibili (la forte volontà di riaccentramento di funzioni legislative in capo allo Stato; l’eliminazione della potestà concorrente quale causa dell’aumento del contenzioso costituzionale), ha prodotto soluzioni opinabili, quanto all’imprecisa definizione delle materie (per di più in due elenchi di competenze teoricamente esclusive di Stato e Regioni) e degli ambiti di intervento rispettivo di Stato e Regioni (che di fatto non negano ambiti anche significativi di legislazione integrata, ancorché qualificati con espressioni ambigue, come «disposizioni generali e comuni») che non argineranno la conflittualità tra Stato e Regioni”.

 

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