Donald Trump non ha ancora le idee chiare sulla politica energetica e ambientale che realizzerà. Abbiamo visto nel precedente articolo che Trump ha costruito la sua campagna elettorale su slogan a effetto ma non ha ancora delineato un concreto programma energetico e ambientale per il quadriennio 2017-2020.
Abbiamo anche ricordato che – per la prima volta dal 1928 – i repubblicani controllano l’intero portafoglio delle istituzioni: la Casa Bianca, la maggioranza in Senato e nella Casa dei Rappresentanti, la maggior parte dei Governatori, la maggioranza nella Corte Suprema.
Ma questo non significa che il nuovo presidente potrà ribaltare le priorità americane – e di riflesso quelle mondiali – uccidendo le energie rinnovabili e liberalizzando lo sfruttamento delle risorse fossili senza più alcun vincolo ambientale.
Anche se Trump raccoglie nelle sue mani un potere decisamente superiore a quello concesso ai presidenti nelle democrazie parlamentari europee, gli Stati Uniti non sono una monarchia elettiva. La Costituzione prevede la suddivisione dei poteri: in numerosi ambiti l’inquilino della Casa Bianca mantiene non il dominio assoluto ma il power to persuade, cioè l’autorevolezza necessaria per portare ad un accordo poteri fra loro in conflitto.
Per quanto riguarda la politica interna, il Presidente deve ottenere l’accordo del Congresso per modificare la legislazione. E i democratici ancora conservano seggi sufficienti per bloccare le risoluzioni più aberranti.
Trump potrà emettere ordini esecutivi o cancellare ordini emessi dai suoi predecessori, ma nella maggior parte delle situazioni il suo ambito di intervento rimarrà limitato dai requisiti del due-process: dovrà sempre rispettare i diritti legali posseduti dai singoli cittadini.
Avrà l’autorità per dare la propria interpretazione della Legge esistente, incluso il Clean Air Act, che dal lontano 1963 – l’ultima revisione è del 1990 – detta le regole per contenere l’inquinamento su tutto il territorio statunitense. Ma la propria interpretazione dovrà essere “ragionevole” e le sue decisioni non potranno essere “arbitrarie, capricciose o un abuso di potere discrezionale” come recita la Legge sulle procedure amministrative.
Inoltre, l’amministrazione Trump non potrà semplicemente abolire o ritirare leggi federali. Dovrà intraprendere un processo legislativo basato su nuove e comprovate evidenze sperimentali per poterle emendare o cancellare.
Avrà ampio margine per alterare la legislazione che regola la produzione di energia sul territorio federale, incluso il rilascio di nuove concessioni e di permessi ambientali meno stringenti, ma dovrà difendere queste istanze nelle Corti federali dove è probabile che sarà certamente contrastato dalle potenti e ben finanziate lobbies ambientaliste.
L’amministrazione Obama stessa ha dimostrato quanto sia complesso tentare di modificare le politiche ambientali americane: in otto anni ha impiegato la propria autorità per alterare il panorama energetico nazionale grazie a una capillare opera di persuasione delle Corti Federali a sua volta contrastata dalle lobbies dei produttori meno attenti alle tematiche ambientali (ed alla conseguente pubblicità negativa verso i cittadini-consumatori).
Inoltre, molte leggi sulla produzione di energia (in particolare la regolamentazione di prospezioni, sfruttamento dei giacimenti e incentivi per le rinnovabili) sono state fissate non solo a livello federale ma anche di singolo Stato. Si è quindi creato un Corpus legislativo sui temi ambientali che non può scomparire improvvisamente e che vincolerà ancora di più lo spazio di manovra a disposizione del prossimo presidente.
In politica estera, invece, il Presidente detiene un potere superiore in quanto comandante in capo e primo rappresentante degli Stati Uniti all’estero.
Ma anche in questo caso non gode di potere assoluto. La sua azione dipende dalla sua capacità di costruire alleanze con altre nazioni e strutture sovranazionali per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla propria agenda. Anche in questo caso, l’azione di Obama ha dimostrato quanto lavoro diplomatico si sia reso necessario per passare dalla politica delle sanzioni agli accordi stipulati sul futuro dell’Iran. Lo staff del Presidente dovrà ricordargli che, in tutta la sua storia, la politica estera americana è sempre risultata efficace quando è riuscita a coinvolgere una coalizione di Paesi alleati e viceversa si è dimostrata impotente quando ha perseguito politiche isolazioniste.
Che lo voglia o meno, Trump dovrà comunque fare i conti con la realtà oggettiva: il cambiamento climatico, il prezzo dell’energia, la globalizzazione asimmetrica, l’immanente instabilità dei Paesi produttori di idrocarburi, gli squilibri sociali e di reddito nel mondo, l’espansionismo cinese e il ritorno della superpotenza Russia. Se vorrà puntare ad un secondo mandato, dovrà poter dimostrare che in quattro anni è riuscito a lasciare un segno positivo almeno in alcune di queste sfide.
Per questo, analisti, giornalisti e investitori dovrebbero evitare di lanciare giudizi affrettati: la nuova amministrazione dovrà necessariamente scendere a compromessi anche sui temi energetici ed ambientali per adattare la roboante retorica elettorale con i concreti problemi pratici connessi col governo della Nazione.
In conclusione, lo spoil system americano prevede che chi vince le elezioni possa collocare oltre 4000 persone di sua fiducia nei posti chiave dell’apparato amministrativo sostituendo quelle nominate dal predecessore. Come sempre, quindi, non sarà un singolo ma una squadra a prendere e ad attuare le principali decisioni. Il transition team è guidato dallo stesso vicepresidente eletto Mike Pence, un serio repubblicano che – al contrario di Trump – gode della fiducia di tutto il partito. Se, come sembra, inizierà eliminando tutti i lobbisti dalla sua squadra, avrà fatto un primo passo per recuperare la fiducia degli elettori che non hanno votato per loro.