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La riforma della Costituzione è coerente con le attese degli ultimi anni?

PER IL SI’

Stefano Ceccanti (Diritto pubblico comparato La Sapienza)

“L’elemento di continuità è dato dalla materia, la riforma del Senato, anche se i precedenti tentativi erano più estesi. Tuttavia non deve sfuggire la discontinuità di merito: i precedenti tentativi, in particolare quelli della Commissione D’Alema e della riforma del centrodestra bocciata dal corpo elettorale, mantenevano in capo al Senato, pur privato della fiducia, uno spropositato potere di veto in ambito legislativo in grado di paralizzare per molti aspetti la maggioranza politica della Camera. In connessione a tale grave difetto la regionalizzazione del Senato era pressoché assente nel sedicente Senato delle garanzie della Commissione D’Alema e più timido in quella del centrodestra, dove era affermato solo dalla contestualità dell’elezione dei senatori con quella del relativo Consiglio regionale, senza che le due cariche potessero cumularsi”.

Tommaso Edoardo Frosini (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli)

“Una certa continuità con la storia delle riforme costituzionali (auspicate ma mancate) è senz’altro rinvenibile nel superamento del bicameralismo paritario. E quindi sottrarre una Camera, nella specie il Senato, al rapporto fiduciario con il Governo, al fine di renderla maggiormente rappresentativa delle sole Autonomie territoriali e non più della rappresentanza politica. Credo che questo auspicio riformatore lo si possa attribuire fin dagli studi di Mortati e poi di Occhiocupo e altri ancora, che risalgono agli anni ’70. Mi sembra di potere dire che, tendenzialmente, la dottrina degli ultimi venti anni è stata largamente favorevole alla riforma del bicameralismo. Mentre sull’altro fronte, non parlerei di rottura, anche se stavolta, e forse per la prima volta nella storia delle riforme istituzionali, non si è tenuto conto di un possibile cambiamento della forma di governo, magari come da tempo suggerito verso un rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio. Certo, la riduzione a un monocameralismo di fatto incide sulla forma di governo, con il concorso di una legge elettorale a effetto maggioritario, però le norme costituzionali relative alla formazione del Governo e allo scioglimento della Camera sono rimaste immutate. Vedremo se lo rimarranno anche in via di prassi”.

Cesare Pinelli (Istituzioni di diritto pubblico La Sapienza)

“È un fatto che l’esigenza di trasformare il Senato in una Camera rappresentativa delle Autonomie territoriali, circondata da diffuso favore scientifico e spesso tradotta nella presentazione e talvolta nella discussione di disegni di legge costituzionale, abbia coinciso con le fasi del processo di regionalizzazione, fino a culminare nell’impegno a futura memoria di cui all’art. 11 l. cost. n. 3 del 2001. Ovviamente, per le materie della II Parte su cui si sono avuti tentativi di riforma, ma non toccate dalla legge costituzionale, non si può invece parlare né di continuità né di rottura”.

Giusto Puccini (Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Firenze)

“La legge di revisione si differenzia nettamente dalle precedenti, laddove: a) contempla da un lato un Senato rappresentativo degli enti esponenziali delle collettività territoriali (non solo Regioni ma anche Comuni), dall’altro una singolare forma di elezione diretta dei senatori consiglieri regionali, costituenti quasi tre quarti dell’assemblea; b) riserva alla Camera una posizione di netta prevalenza nel procedimento legislativo; c) non mette in discussione la forma di governo parlamentare, né la razionalizza; d) contiene una serie di previsioni di ordine garantistico quali quelle menzionate alla fine della risposta alla domanda n. 3. Essa appare invece in linea di continuità con buona parte delle precedenti laddove riserva alla Camera la titolarità del rapporto fiduciario con il Governo, nonché con alcune di esse per la contestuale previsione di una riforma del Titolo V”.

 

PER IL NO

Gaetano Azzariti (Diritto Costituzionale La Sapienza)

“Questa riforma risulta porsi in forte continuità con il passato, collocandosi entro la scia lunga delle trasformazioni delle democrazie maggioritarie. Si potrebbe tracciare un percorso storico (più o meno) lineare contrassegnato dalla progressiva verticalizzazione dei rapporti e della dinamica politica. Una lunga trasformazione del sistema costituzionale che non ha coinvolto solo – o tanto – il testo della Costituzione, quanto l’assetto complessivo dei poteri e le norme ad esso collegate. Se si guarda alle tendenze di fondo e caratterizzanti le riforme istituzionali si può riscontrare una forte omogeneità che lega le diverse leggi elettorali che si sono succedute dal 1993 in poi e i tanti progetti di («grande») riforma costituzionale immaginati sin dalla metà degli anni ’70. Vero è che nel periodo più recente si registra una sorta di accanimento terapeutico. Tanto più arranca la democrazia maggioritaria, dando segni di sfaldamento progressivo, quanto più il nostro sistema politico accentua le distorsioni istituzionali che hanno condotto alla chiusura autoreferenziale della politica. Se nel 2005 la verticalizzazione del potere si era manifestata lungo la linea del c.d. «premierato assoluto», ora esso converge verso l’obiettivo della riduzione degli «altri» poteri: meno poteri alle Regioni, un bicameralismo confuso, iter legislativo complesso, una Camera politica strettamente collegata alla maggioranza di Governo (quest’ultimo scopo è conseguito non tramite una modifica del testo costituzionale, bensì in virtù degli effetti assicurati dalla nuova legge elettorale che ha delineato un meccanismo che assicura la vittoria ad una singola lista riuscendo così definitivamente a trasformare l’elezione parlamentare essenzialmente in una scelta per il Governo). Se si volesse effettivamente perseguire una «rottura rispetto all’evoluzione registratasi dagli anni ’80 in poi» si dovrebbe pensare ad una riforma costituzionale – e ad un nuovo complessivo assetto dei poteri – che rimetta in discussione la lunga stagione maggioritaria. Affrontando direttamente la difficile questione delle forme istituzionali di una democrazia pluralista oggi”.

Paolo Caretti (Diritto costituzionale Università degli Studi di Firenze)

“Se si guarda ai problemi affrontati (riforma del bicameralismo in chiave regionalista e razionale distribuzione della funzione legislativa tra Stato e Regioni) si può parlare di un rapporto di continuità. Quanto alle soluzioni proposte il rapporto è di forte discontinuità: sul piano della riforma del bicameralismo le proposte precedenti avevano puntato soprattutto a definire un rapporto di collaborazione sul piano della legislazione nazionale destinata ad avere dei riflessi sull’autonomia regionale e quella locale. Le proposte in discussione offrono una disciplina molto restrittiva di questa partecipazione, incomprensibilmente esclusa proprio nelle materie di competenza regionale. Ancora più forte la discontinuità sul piano dei criteri di riparto della funzione legislativa tra Stato e Regioni: a fronte di una rilevante valorizzazione dell’autonomia legislativa regionale operata dalla riforma del Titolo V del 2001, ora si compie una vera e propria inversione di marcia, eliminando formalmente la c.d. competenza concorrente e disegnando la nuova potestà legislativa regionale come una potestà meramente integrativa di quella dello Stato”.

Enrico Grosso (Diritto costituzionale Università degli Studi di Torino)

“La domanda presuppone la possibilità di individuare, nel percorso ultra trentennale del dibattito pubblico sulle riforme, una coerenza di fondo. Il che non è possibile. Al contrario, si notano continue oscillazioni, ripensamenti, fughe in avanti e precipitosi ritorni indietro. Pensiamo al contesto del tutto estemporaneo in cui, nel 1996, maturò, per poi rapidamente evaporare (salvo un veloce ritorno di fiamma, ai tempi della Bicamerale D’Alema, grazie al blitz leghista del 4 giugno 1997), l’ipotesi di introdurre nel nostro sistema una forma di governo semipresidenziale, che per un breve momento assurse addirittura a possibile piattaforma di una nuova alleanza di Governo, poi peraltro travolta al mutare del precario equilibrio politico che l’aveva determinata, intorno al c.d. «tentativo Maccanico». Troppi, e tra loro non compatibili, sono stati i modi con cui si è perseguito, di volta in volta e al mutare delle stagioni politiche, il generico obiettivo di «razionalizzare» la forma di governo parlamentare (attraverso il rafforzamento dell’esecutivo), per poter individuare vere e proprie linee di continuità. Nell’attuale progetto l’attenzione si è spostata sul tema del bicameralismo e sul ruolo della seconda Camera (tema invece quasi del tutto assente nel precedente dibattito). Oggi come nel passato, l’impressione è quella di un approccio contingente e rapsodico, miope perché sdraiato sull’attualità più stringente e del tutto indifferente ai tempi lunghi. Il che è grave, perché il tempo lungo, e non il contingente, è il tempo della Costituzione”.

Barbara Pezzini (Diritto costituzionale Università degli Studi di Bergamo)

“Vedo sia elementi di discontinuità, sia di continuità. Il tema «storico» del bicameralismo si «sgancia» in questa fase dalla necessità di rafforzare e caratterizzare la rappresentanza regionale (ed eventualmente delle Autonomie locali), al quale era stato collegato nel passato. Si prevede che il Senato «rappresenti le istituzioni territoriali», ma la nuova architettura del sistema parlamentare è disegnata pensando soprattutto alle garanzie di funzionamento della forma di governo parlamentare (riservando ad una sola Camera il rapporto politico con il Governo) ed in stretto collegamento con la riforma elettorale, in modo da garantirne il funzionamento (nelle intenzioni originarie la riforma del Senato avrebbe dovuto trovare compimento prima dell’entrata in vigore della riforma elettorale). Mi sembra anche un vero paradosso che la trasformazione del Senato in sede di rappresentanza delle Autonomie  –  anche a prescindere dalla valutazione della sua effettiva rilevanza nel ridisegno del bicameralismo  –  avvenga insieme ad una riforma della riforma del Titolo V decisamente caratterizzata in senso centripeto (e qui la discontinuità con la tendenza precedente è massima e sorprende quanto poco sia discussa). Né, d’altra parte, il nuovo Senato, per la debolezza della sua configurazione strutturale e funzionale, sembra in grado di offrire un reale contrappeso rispetto a tale dinamica di accentramento. Si potrebbe persino dire che la debolezza del Senato diventa elemento di coerenza sistematica, quantomeno interna, della riforma, confermando che il segno prevalente del progetto di riforma è effettivamente costituito dal perseguimento della «governabilità» tramite strumenti istituzionali. In ciò è, semmai, leggibile una continuità di impostazione con le tendenze al rafforzamento del Governo già da tempo in atto, presenti anche in precedenti progetti di revisione. La riforma forgia strumenti a disposizione del raccordo Governo-maggioranza nei confronti dell’opposizione, ma anche per consentire al Governo il controllo della sua maggioranza: convergono a tale scopo, insieme con la legge elettorale maggioritaria, la concentrazione in un’unica sede della fiducia/sfiducia, la riduzione dei poteri del Senato nel procedimento legislativo, la configurazione complessiva del procedimento legislativo monocamerale secondo tempi strettamente cadenzati e la previsione di poteri procedurali del Governo nel procedimento legislativo, a fini di certezza, non solo temporale, della deliberazione finale”.

 

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