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Vi racconto le democristiane baruffe tra Tina Anselmi e Francesco Cossiga sulla P2

Povera Tina, la mia carissima Tina Anselmi, spentasi a 89 anni nella sua Catelfranco Veneto fra molti e meritati elogi – per essere stata, in ordine di tempo, la più giovane partigiana, quando non aveva ancora compiuto i 17 anni, il primo ministro donna nella storia d’Italia, la prima a gestire il passaggio dalle vecchie mutue al servizio sanitario nazionale, la prima a portare in porto una legge sulla parità di trattamento fra uomini e donne – ma anche fra qualche ingiusto e velenoso attacco. Che è ancora più odioso alla luce dei lunghi 15 anni di malattia che Tina ha sopportato con la solita, stoica caparbietà prima di morire. E di farsi comporre nella bara con la foto, fra le mani, di quel giovanotto che era stato il suo unico fidanzato, morto di tubercolosi prima di poterla sposare.

Qualcuno, pur riconoscendo la sua dirittura morale, non ha voluto perdonarle neppure da morta di avere preso troppo sul serio la loggia massonica P2 di Licio Gelli, indagata da una commissione parlamentare affidata alla sua guida personalmente dall’allora presidente della Camera Nilde Jotti. Che non volle sentire ragioni di fronte ad altri nomi proposti dalla Dc, il partito dell’Anselmi.

L’indagine della commissione di Tina fu più severa, nelle sue conclusioni, di quelle condotte dalla magistratura ordinaria di Roma, dove gli atti giudiziari erano stati trasmessi da Milano con un rammarico ribadito, a tanti anni di distanza, dall’allora pubblico ministero Gherardo Colombo.

In particolare, l’Anselmi vide nella loggia di Gelli, affollata di generali, ammiragli, ambasciatori, prefetti, dirigenti di servizi segreti, di aziende pubbliche e private, magistrati, politici e giornalisti non solo dei carrieristi e affaristi, ma anche degli effettivi e potenziali manipolatori dei rapporti istituzionali. Cioè effettivi o potenziali eversori. Esagerata, le gridarono molti affiliati convinti di essere stati forse troppo ingenui o opportunisti, ma niente di più: alcuni neppure affiliati davvero, essendosi trovati a sorpresa nelle liste della loggia, o avendo chiesto di farne parte e avendovi poi rinunciato, come nel caso di Adolfo Sarti appena evocato dal suo allora capo di segreteria Massimo Cencelli. Che è quello del famoso “manuale” con cui nella Dc si pesavano le correnti e venivano assegnati ad esse i posti di governo, e sottogoverno.

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Di ingenui e di opportunisti certamente non ne mancarono fra i quasi mille iscritti alla loggia risultanti dalle carte sequestrate a Gelli, che forse erano anche molti di più, almeno il doppio, secondo alcune valutazioni degli inquirenti convinti che il “venerabile” capo della loggia fosse riuscito a sottrarre parecchio alle perquisizioni e ai sequestri. Ne ho conosciuto e conosco alcuni di quei signori sulla cui buona fede me la sentirei ancora di scommettere.

Ho già raccontato proprio qui della volta in cui solo per caso non mi fu possibile raggiungere l’amico Roberto Gervaso in un incontro con ufficiali argentini, in un albergo romano, dove avrei potuto rischiare di risultare, alla fine, non fra gli invitati ma fra gli affiliati proprio a quella loggia.

Ma possiamo essere proprio sicuri che in quelle liste ci fossero solo aspiranti più o meno ingenui a carriere e affari? Persone, peraltro, che già per il fatto di essere a conoscenza di cose riservate, in una loggia che aveva proprio nella segretezza il primo requisito, erano in condizioni privilegiate rispetto ad altri concorrenti ad uno stesso affare, ad uno stesso avanzamento, ad una stessa gara.

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Ricordo ancora bene quel giorno in cui chiesi alla mia amica che cosa le desse tanta sicurezza nella lettura “eversiva” della loggia P2. Glelo chiesi, in particolare, dopo avere raccolto uno sfogo di Francesco Cossiga contro le “esagerazioni” di Tina, che gli aveva sbattuto il telefono in faccia a una sua rimostranza. Ma non sapevo – come ho invece appreso adesso da un’intervista di Anna Vinci, biografa ed ex segretaria dell’Anselmi- di una lettera di Gelli allo stesso Cossiga, finita tra le carte della Commissione, in cui il “venerabile” gli chiedeva di essere “difeso” proprio dall’ex ministra per il modo in cui dirigeva la commissione parlamentare d’inchiesta.

Tina mi rispose circoscrivendo il discorso al mio ambiente professionale, non volendo o non potendo parlare d’altro. Mi chiese a sua volta, in particolare, se ritenessi normale che una loggia massonica, dopo essere riuscita a garantirsi il controllo del maggiore giornale italiano, il Corriere della Sera, avesse avvertito la necessità e fosse stata capace di fare sottoscrivere al maggiore gruppo editoriale concorrente, quello dell’Espresso e Repubblica, un patto di divisione di aree di diffusione: un patto insomma di collaborazione o di assistenza reciproca. Mi chiese se mi sembrasse quello il modo di esercitare e garantire il pluralismo in una democrazia. E me lo chiese con la solita franchezza, oltre che amicizia, sapendo bene che la linea politica che accomunava con quel patto i due gruppi era quella, da lei pur condivisa, della cosiddetta solidarietà nazionale: l’intesa fra i due maggiori partiti, la Dc e il Pci, benché essa avesse subìto un durissimo colpo con la morte  -e che morte – del nostro comune amico Aldo Moro.

Trovai quel discorso di una sincerità e credibilità semplicemente disarmanti. E ne tenni conto dopo un po’, nell’azione di contrasto che con successo solo iniziale condussi nel giornale dove allora lavoravo, La Nazione, perché non ne assumesse la direzione un collega proprio di quel giro, appena nominato. L’editore naturalmente non me la perdonò. Tina al nostro primo, casuale incontro dalle parti di Montecitorio mi strizzò simpaticamente l’occhio. Grandissima Tina.

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