Com’era prevedibile dilagano sui più autorevoli quotidiani italiani analisi del voto referendario, sulla sua distribuzione geografica, sugli orientamenti culturali e sulla condizione sociale di coloro che si sono schierati per il Sì e per il No, e soprattutto su quelle che potrebbero essere le conseguenze politiche di breve e medio periodo all’indomani dell’annuncio delle dimissioni di Renzi da presidente del Consiglio, e di quanto fatto trapelare dal Quirinale circa la necessità di una nuova legge elettorale prima di andare a nuove elezioni.
Chi scrive tuttavia ritiene opportuno tornare su alcune autorevoli affermazioni che si sono ascoltate in questi giorni sui voti di entrambi gli schieramenti, sulla condizione e le necessità del Paese e su quanto sta avvenendo nel Pd. Naturalmente non abbiamo alcuna presunzione di originalità, ma vogliamo solo offrire un contributo (sperabilmente utile) al ricco dibattito in corso. Procedo per singoli punti:
1) Renzi ha affermato che il 40,89% di Sì rappresenti una consistente base di consensi da cui ripartire, anche se lui stesso ha dichiarato che non possono essere interamente ascritti al Pd e alla sua impostazione riformatrice. Questo è sicuramente vero, non tutti infatti sono voti del Partito Democratico, ai quali si sono aggiunti consensi provenienti trasversalmente e sia pure in misura ineguale da altre aree politiche. E tuttavia, a ben vedere, non si può disconoscere che quei tredici milioni di voti, pur giungendo in gran parte dal Pd e in molta minor misura da altri ambienti politico-culturali, abbiano espresso un consenso forte e determinato non solo a un disegno di riforma costituzionale, ma anche – ci sembra – ad un lavoro portato innanzi dal governo Renzi sin dal suo insediamento che ha avviato un percorso di riforme nel Paese senza precedenti, almeno nell’ultimo ventennio.
Poi si può e si deve discutere a fondo su qualità, tempi ed effetti di quelle riforme – molte delle quali ancora da completare – ma ci sembra innegabile che il 40% degli elettori abbia espresso l’esigenza di continuare sulla strada tracciata dal febbraio del 2014 dal premier. Ma quelle riforme, lo sappiamo bene, hanno inciso su vecchie situazioni sociali e territoriali, assetti istituzionali ormai obsoleti, politiche di settore superate e hanno finito così col toccare, o anche solo minacciare, piccoli e grandi interessi costituiti, corporativismi categoriali e istituzionali, privilegi ormai insostenibili vasti e diffusi che si sono coagulati nel votare No, insieme a tutti coloro (e sono tanti) che soffrono ancora gli effetti della lunga crisi 2008-2014.
E non ci riferiamo soltanto ai dipendenti e ai vertici del Cnel – un fossile istituzionale di epoca fascista trasferito poi nella Costituzione dell’Italia repubblicana – ma, ad esempio, agli uffici e a coloro che vi sono impiegati delle Province italiane, a larghi settori della pubblica amministrazione centrale e locale, soprattutto ai loro livelli apicali, che si sono sentiti minacciati nella loro intoccabilità, ai vertici di Autorità portuali che la riforma Delrio ha ridotto di numero avviandone un riassetto funzionale, a settori maggioritari dell’imprenditoria edile del nostro Paese cui il nuovo codice degli appalti (sempre del ministro Delrio) – che ha drasticamente ridotto il ricorso a gare senza i progetti definitivi delle opere appaltabili – sottrae i vecchi margini delle famigerate ‘revisioni prezzi’ e delle cosiddette ‘rivalse’ molto spesso in passato in grado di dissanguare le casse delle stazioni appaltanti. Ed inoltre tali settori dell’imprenditoria edile nazionale hanno guardato con sospetto al ruolo dell’Autorità Anticorruzione di Raffaele Cantone nella designazione di commissari per le gare d’appalto.
E non minore impatto riformatore ha avuto lo sforzo di ridurre la spesa pubblica con la spending review che ha inciso nella carne viva di flussi finanziari che per lungo tempo hanno alimentato microclientelismi, soprattutto a livello di enti locali e Regioni. E per quanto riguarda il Jobs Act, se è vero che esso ha consentito assunzioni più ampie favorite anche dagli sgravi contribuitivi e dal taglio del cuneo fiscale, ha introdotto (in tutte le aziende) maggiori rischi di licenziabilità che hanno comprensibilmente spaventato gli operai con le qualifiche più basse, in assenza di alternative occupazionali in molte zone del Paese. Ma sono anche altri i campi in cui i processi avviati da Renzi e dal suo governo hanno finito con lo scardinare assetti e situazioni del passato che però non erano ormai più gestibili come, solo per fare un altro esempio, nel mondo della scuola.
2) Alla luce di queste pur sommarie considerazioni, la domanda che ci poniamo è la seguente: può il Paese permettersi lo stallo che si rischierebbe se determinati processi di riforma non fossero portati a compimento? Certo, quegli stessi processi potrebbero essere ricalibrati nelle loro impostazioni e rimodulati nelle scadenze temporali cosi da essere migliorati e resi socialmente accettabili, ma la direzione di marcia dovrebbe essere chiara: o si procede in avanti nel riordino complessivo dello Stato ad ogni livello, o non sono più sostenibili le tante situazioni incancrenite del passato.
Allora, se queste considerazioni hanno un qualche fondamento, si può trovare – o almeno provare a individuare – un minimo comun denominatore fra le forze politiche e sociali più responsabili del Paese sul terreno di una sua modernizzazione, senza la quale l’alternativa è un declino inesorabile che colpirebbe tutti noi? Veramente qualcuno pensa che oggi in Italia si possa andare avanti a lungo con piccoli e grandi privilegi, rendite intoccabili di tante nicchie, egoismi di varie categorie, assetti istituzionali ormai arcaici, quando abbiamo da affrontare (e subito) situazioni ormai intollerabili di degrado sociale, di disoccupazione giovanile, di ingiustizie diffuse ormai denunciate ogni ora su facebook da parte di coloro che continuano ad esserne vittime ?
3) Quanto sta avvenendo in queste ore nel Pd – e che ancor più avverrà presumibilmente nelle prossime settimane e mesi – sarebbe auspicabile che fosse accompagnato da una riflessione profonda di tutti i suoi dirigenti, nessuno escluso, sui problemi veri della società italiana che non riguardano certo i destini personali di ex segretari e presidenti del Consiglio che hanno avuto tutto dalla politica e che ancora pretendono ricollocazioni e gratificazioni di incarichi pubblici, ma che riguardano invece il destino di ben 60 milioni di italiani che non vogliono più vivere all’ombra e secondo gli umori e le ambizioni personali di vecchi e nuovi notabilati ormai logori e sempre più spesso incapaci di cogliere le ansie, le attese e i drammi veri di tutti i cittadini ed in particolare di quelli più sofferenti.