Una conferma della presenza del Diavolo nei dettagli l’ha appena offerta Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio con un “catenaccio”, come si chiama in gergo tecnico, sistemato sotto questo annuncio a caratteri di scatola, che vanno sempre più di moda, anche quando non lo meritano: “Una retata li seppellirà”. Il catenaccio invece dice: “Dopo il referendum salta il tappo delle inchieste sulla politica”.
Il dettaglio, in qualche modo suicida per un giornale sempre schierato con i magistrati, specie con quelli facili all’uso delle manette, sta in quel “dopo il referendum”. Che, volente o nolente, sottintende uno scrupolo avvertito dalle Procure di turno della Repubblica di non disturbare la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, dalla quale sono notoriamente usciti vincenti i no: compresi quelli gridati e motivati da illustrissimi e operosi magistrati, affezionatissimi alla Costituzione “più bella del mondo” avventatamente assaltata, secondo loro, da quel birbante di Matteo Renzi. Il quale ci ha già rimesso per questo la guida del governo, e non sa ancora se riuscirà a salvare il resto, cioè la guida del suo partito.
Il richiamo alla “retata”, che ha un fascino irresistibile per Travaglio perché comporta l’esecuzione di una serie di arresti, di manette che scattano ai polsi con un suono eccitante, come spesso sono quelli che sentiamo al computer quando buttiamo qualcosa nel cestino, delimita in qualche modo la ricerca del “tappo” calato sulle inchieste prima e durante la campagna referendaria.
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Beppe Sala, il sindaco di Milano autosospesosi alla notizia di un’indagine riapertasi a suo carico per gli appalti all’Expo da lui gestita prima di candidarsi a Palazzo Marino, è un uomo liberissimo. Ha solo ricevuto la notifica, almeno spero, di un atto giudiziario, se non ha saputo dell’indagine dai giornali prima ancora che dai magistrati, com’è del resto accaduto a tanti altri in Italia per la tenuta non proprio a stagno dei cassetti e degli uffici dei palazzi di giustizia. Di manette ai suoi polsi non ne sono scattate: né di vere né di false, per gioco, simili a quelle che qualche giorno fa davanti alla Camera, e agli occhi sgomenti di Carabinieri e agenti di Polizia, alcuni “forconi” travestiti da uomini hanno cercato di apporre all’ex deputato forzista e ora solo amministratore locale Osvaldo Napoli.
Di manette, in questa “retata” annunciata o auspicata da Travaglio sul Fatto Quotidiano ci sono state e ci sono solo quelle usate a Roma, le più clamorose delle quali hanno riguardato un signore –che neppure nomino per eccesso di garantismo- scelto a suo tempo da Virginia Raggi, sindaco o sindaca grillina della Capitale, come uno dei suoi più stretti e fidati collaboratori, resistendo ai pareri contrari di alcuni dei suoi compagni di partito, fra i quali lo stesso capo delle 5 stelle. Che ora giustamente stentano assai ad accontentarsi delle “scuse” della Raggi e della sua improvvisa decisione di declassare l’arrestato ad uno dei ventimila e più dipendenti della effettivamente pletorica, scandalosamente pletorica, amministrazione capitolina. A guidare la quale però i grillini si sono candidati senza alcuna prescrizione medica, e col proposito dichiarato in campagna elettorale di non sfoltire il personale, non volendo evidentemente correre il rischio di perdere voti.
Ora, se tanto mi dà tanto, cioè se il “tappo” delle indagini giudiziarie romane è stato rimosso solo dopo le votazioni referendarie sulla riforma costituzionale, vuol dire che esso è servito a salvaguardare la causa sostenuta nel referendum dal partito della Raggi e dallo stesso Comune di Roma, il cui Consiglio è stato schierato con tanto di voto voluto dal sindaco, o sindaca, sulle barricate del no. Lo stesso no –ripeto- sostenuto da tanti magistrati.
Ditemi voi, a questo punto, se questa non è o non può non apparire ad una persona dotata di buon senso, o senso comune, una gestione ad orologeria della giustizia, almeno nella rappresentazione che ne ha fatto il giornale diretto da Travaglio.
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Ai margini della cerimonia annuale degli auguri natalizi al Senato, i cui specchi, commessi, funzionari e parlamentari stavolta erano più luminosi del solito per lo scampato pericolo della riforma che avrebbe ridotto questo ramo del Parlamento ad un rametto, il presidente Pietro Grasso ha voluto ottimisticamente contestare ogni paragone fra quello che sta accadendo giudiziariamente e politicamente in Italia in questi giorni con ciò che accadde per Tangentopoli nel biennio 1992-93. Quando cadde una ghigliottina sulla cosiddetta prima Repubblica.
Una delle vittime di quella ghigliottina, l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, ha invece colto l’occasione delle attuali cronache giudiziarie e politiche per ricordare ai vecchi e nuovi giustizialisti, in particolare ai grillini, che “come le volpi finiscono in pellicceria, così i moralisti finiscono alla gogna”, prima o dopo. Che è poi un modo di rilanciare un vecchio monito di Pietro Nenni agli epuratori dell’immediato secondo dopoguerra: “C’è sempre qualcuno più puro che ti epura”.
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Per chiudere, vorrei unirmi agli auguri di Eugenio Scalfari a Papa Francesco per il compimento degli 80 anni, pur non avendo certamente col Pontefice i rapporti dichiaratamente di “amicizia” del fondatore di Repubblica. Che ha avuto la cortesia di spiegarci ciò che, da non credente, è riuscito a strappare al Papa: il pieno diritto di considerare Gesù Cristo non il figlio di Dio ma “Gesù di Nazareth, figlio di Maria e Giuseppe, della tribù di Davide”.
Ebbene, pur senza sottovalutare questa concessione, credevo che il Papa avesse dato a Scalfari molto di più: anche il permesso quasi fraterno, non potendosi dire paterno per ragioni anagrafiche, di ostentare l’amicizia con lui. Che non guasta neppure alla diffusione di un giornale che soffre, come tutti gli altri, di una perdita continua di copie.