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Perché l’analisi di Matteo Renzi sulla scoppola referendaria non mi ha convinto

Matteo Renzi

La linea era giusta, ma la sua applicazione sbagliata. Nelle vecchie liturgie del Pci, all’indomani di una sconfitta, questa era la posizione con cui il segretario del partito si presentava di fronte al Comitato centrale. Momento di passaggio. Nelle fasi successive, infatti, la linea veniva modificata ed aggiornata, all’insegna di quel “rinnovamento nella continuità” che era la vera cifra di quell’esperienza storica. E che aveva consentito al più forte partito comunista dell’Occidente si sopravvivere continuamente a sé stesso. Quello schema non è mutato. Matteo Renzi, riunita l’assemblea nazionale, ne aggiorna il linguaggio. Ma non la sostanza. Le riforme proposte, ma battute dal referendum costituzionale, erano giuste. Ma non siamo riusciti a comunicarle correttamente. E quindi siamo stati battuti.

L’analisi non è convincente. Senza voler minimamente riaprire la discussione sulla “qualità” delle riforme proposte, l’elemento completamente trascurato, nell’analisi del leader del Pd, è il dato di contesto. La sensazione, cioè, che più di un normale referendum costituzionale, gli elettori fossero chiamati ad una sorta di plebiscito, nei confronti del Capo del governo. Plebiscito che non può essere semplificato nella formula, usata dal leader, dell’amore o dell’odio nei confronti della sua persona. Forse, la verità più profonda è che gli italiani sono stanchi dell’idea di “una sola persona al comando”. Sia essa di destra o di sinistra. La grande partecipazione popolare a quell’esercizio democratico dovrebbe far riflettere.

Le vecchie assise del Pci appartengono al passato. Al tempo dei telefoni a gettoni: direbbe Renzi. Epoche che il giovane fiorentino non ha vissuto. Da qui un piccolo mistero. Come si spiega, allora, la ripetitività dello schema? E’ il contagio dei muri del Nazareno? Il traslarsi inconscio di una cultura che apparteneva ai padri fondatori? Può anche essere. Ma se andiamo oltre gli aspetti puramente psicologici, la risposta è meno esoterica. Matteo Renzi è stato il terzo Presidente del consiglio a non essere stato eletto. Viene dopo Mario Monti ed Enrico Letta. Il suo unico bagno di folla è stato all’interno del suo partito: prima nelle primarie e poi nel congresso. Il successo elettorale conseguito per le elezioni europee è stato solo un episodio. Subito contraddetto dalle successive elezioni amministrative.

Ne consegue che la sua proposta politica – il cosiddetto “combinato disposto” legge elettorale riforme costituzionali – è stata solo frutto del rapporto intessuto con il Presidente della Repubblica pro-tempore: Giorgio Napolitano. Investitura importante, ma non sufficiente per supplire a quella mancanza di base. Vale a dire l’adesione preventiva ad un programma elettorale che deve trovare conferma nel successivo mandato popolare. La mancanza di questo tassello fondamentale ha esposto il giovane leader al rischio della successiva verifica. Ha giocato le sue carte ed ha perso.

C’è stata consapevolezza di questa anomalia nella riflessione sulla sconfitta? In parte sì. Quando Renzi invita tutto il partito a farsi carico delle proposte programmatiche che dovranno costituire il piatto forte della prossima campagna elettorale riconosce, implicitamente, il deficit iniziale. E cerca di colmare la lacuna. Vedremo se, in prospettiva, l’operazione porterà ai risultati sperati. Una parte del suo partito è infatti, ancora ancorata agli schemi del passato. Da questo punto di vista il suo relativo isolamento è stato anche conseguenza di questa contraddizione. Che è tipica di tutte le forze politiche fortemente strutturate. E che il Pd sia frutto di questa lunga sedimentazione è tesi che è difficile negare. Dovrà quindi lavorare intensamente per formare un gruppo dirigente al’insegna più del “rinnovamento” che non della “continuità”. Con tutte le incognite del caso: fino all’ipotesi di una possibile scissione dei “perdenti”.

Ma se Atene piange Sparta non ride. Perché questo è “il problema” di tutta la vita politica italiana. Con questo convitato di pietra – le proposte programmatiche – dovrà fare i conti sia il centro-destra che i pentastellati. Dopo i risultati del referendum pensare che si possa dare ancora una delega in bianco è pura follia. Lo abbiamo visto, se ancora ve ne fosse bisogno, nel caso delle vicende romane. La vittoria “facile” della Raggi a sindaco della Capitale d’Italia si è rapidamente rovesciata nel suo contrario. Cattiva scelta dei collaboratori? Fosse solo questo: sarebbe facile sostituirli. La verità che il movimento, grazie al vento nelle vele dei fallimenti delle passate gestione, non ha perso tempo a farsi un’idea della città. A cercarne di capire i drammatici problemi strutturali che l’affliggono. E quindi il “momento della verità” è stato non solo inevitabile, ma destinato a creare un vuoto che sarà difficile colmare.

Attendiamoci, quindi, momenti concitati. Tutte le forze politiche italiane sono impegnate in un estenuate tatticismo. Non c’è luce programmatica nei loro pensieri. Ma solo slogan legati ad una comunicazione che assume spesso i toni più volgari. Superare quest’impasse non sarà facile, mentre il Paese rischia di essere sconvolto dalle scorrerie di quei “poteri forti” che guardano all’Italia come una terra di facile conquista


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