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Tutte le sfide dei sindacati ai tempi di Renzi, Grillo e Salvini

Come una bella donna che nessuno cerca più, l’Italia trascorre i suoi giorni avvolta in una cupa malinconia. Bella lo è ancora, una dama matura a cui la mezza età non ha strappato gli ultimi bagliori di giovinezza, e fuori la porta – da cui spia con sguardo annoiato – di tanto in tanto si presenta un corteggiatore che ambisce a essere ricevuto. Ma lei non ne ha voglia, non più. Preferisce starsene in ozio a rimpiangere i bei tempi andati, o magari si dedica a piccole occupazioni senza importanza, e così si abbandona alla dimenticanza di sé. Soffia forte come non mai il vento di un lamentoso rimpianto in tutti i campi della vita nazionale, nella cultura alta, in quella pop, nella pubblicistica, nei convegni, nei media. Stranamente dopo il referendum, che ha visto i giovani schierarsi in numero debordante per il No, si assiste a un fenomeno di ripiegamento minimalista; eppure la sconfitta di Matteo Renzi è stata dipinta dai suoi nemici come un grande tuffo nell’energia popolare. Si vede che lo sforzo ha lasciato senza fiato.

Ma sia chiaro: questo vento, prima di trasformarsi in bora, è stato la brezza che ci ha cullato negli ultimi venti anni. E prima che arrivasse il Movimento 5 Stelle a raccoglierla nelle sue vele, altri ne hanno sfruttato a loro vantaggio la spinta propulsiva. Sul Corriere della Sera Dario Di Vico – con qualche ragione –  si è soffermato sull’impreparazione dei sindacati a fronteggiare l’avanzata grillina, che fa proseliti pure tra le loro fila. A prima vista potrebbe sembrare una novità, invece non lo è. Da tempo il voto di chi milita nelle tre grandi confederazioni è in libera uscita: gli ultimi eventi hanno solo confermato questa tendenza. Il caso più clamoroso, raccontato in non poche inchieste giornalistiche, è quello degli iscritti della Fiom che negli anni ’90, all’indomani della dissoluzione della prima Repubblica e della scomparsa dei vecchi partiti, vennero attirati dalle sirene del leghismo. Le perdita della “coscienza operaia” fu rubricata da molti commentatori a segno dei tempi. Il discredito della politica, la scomparsa dell’ideologia di classe come collante, l’emergere di una società marcatamente individualista sempre più orientata ai consumi: questo complesso mix di fattori politici e sociologici, che pure coglieva aspetti importanti del cambiamento in atto, s’impose allora come paradigma unico di valutazione. Poi il giudizio di fatto si è tramutato in giudizio di valore: in fondo – questo il ragionamento di molti – è bene che sia così. Ora ci si accorge di quanto frettoloso fosse questo ragionamento. Si pensi alla teoria del sindacato dei servizi allora in voga, teoria che peraltro ha anche oggi dei sostenitori. La loro idea è grosso modo la seguente: siccome si riducono gli spazi del lavoro “tradizionale”, da sempre la costituency di Cgil, Cisl e Uil, e avanzano forme nuove di lavoro, l’unica carta da giocare per attrarre nuovi iscritti è stata quella di scendere sul terreno dei servizi, dove il sindacato tutt’ora svolge un importante ruolo di agenzia sociale, oltre che di tutela dei suoi associati, perdendo però la capacità d’innovare il modo di fare rappresentanza. Un  freno che forse, anche per colpa di una lunga stagione di concertazione,  ha di fatto incorniciato le organizzazioni sindacali dentro una percezione pubblica quasi da ente “para-statale”,  inibendo la vera natura sociale del sindacato, che ha via via perso credibilità. A ciò si è sommata l’incapacità di guadagnare nuovi spazi tra le leve del lavoro atipico e discontinuo, in larga parte costituite da giovani.

Cosa più grave, i sindacati hanno lentamente, ma inesorabilmente abdicato (fatte salve alcune eccezioni: interessante il caso della Fim Cisl di Marco Bentivogli, che da tempo prova a riposizionare il sindacato in una dimensione che ne recuperi il ruolo di soggetto educatore; si veda il suo ultimo libro Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato, edito da Castelvecchi) alla missione di educazione civile e politica che pure rientra nel loro dna. Inutile quindi meravigliarsi che il voto degli iscritti abbia preso negli anni strade così diverse, che tra rappresentanti e rappresentati si sia aperto un solco destinato di questo passo ad approfondirsi sempre più.

Spezzate le catene dell’ideologia, recisi – bene sempre precisare: non del tutto – i legami psicologici e culturali che danno ad una comunità la consapevolezza di ritrovarsi in un comune destino, i lavoratori si sono scoperti (forse) più liberi, ma soprattutto più soli. E la loro solitudine ha assunto i tratti di una rabbiosa frustrazione mano a mano che i cambiamenti imposti all’economia dalla globalizzazione si sono fatti più impegnativi: è un processo di involuzione che, a ben vedere, non si limita ai settori del lavoro organizzato, ma tocca l’intera società. La crisi ha fatto il resto, provocando una reazione altrettanto (e forse più) rabbiosa nel ceto medio, che s’è ritrovato impoverito, ma soprattutto timoroso del futuro.

La crisi di natalità nel Paese ne il simbolo più lampante. Ma c’è anche una questione legata alla percezione della disuguaglianza, che spesso non rispecchia le vere condizioni delle persone, anche se il mainstream va in senso opposto e alimenta una visione tutta “di pancia”. Perché se è vero che c’è un tasso di povertà preoccupante, specie tra i giovani, è anche vero che siamo il paese dei finti poveri. I ricchi, nonostante l’Italia sia il secondo paese industrializzato d’Europa, sono una rarità: il 96% degli italiani nel 2014 ha dichiarato meno di 50mila euro. Mentre gli imprenditori dichiarano meno dei loro dipendenti.

C’è quindi qualcosa che non quadra. Ma forse le cose non sarebbero giunte al punto in cui sono se i media non avessero per anni sussurrato alle nostre orecchie la cantilena del “Paese che non ce la fa”, della “schiavitù del precariato”, del “tutti ladri”. Le responsabilità non ricadono solo sui talk show urlati, che da destra a sinistra si sono compiaciuti di dare “la parola alla gente” senza mai accompagnarla, quella benedetta parola, ad uno straccio di riflessione critica, ma pure ai giornaloni dell’establishment, che sulla retorica anticasta campano (o, per meglio dire, tirano a campare, vista l’emorragia di vendite) da anni. Di fronte al quotidiano bombardamento cui è sottoposta l’opinione pubblica dall’alto e dal basso, dalla mattina alla sera, non c’è da meravigliarsi che nella testa della “gente” al posto della realtà si sia installato il suo fantasma? E quale credibilità possono vantare le medesime tribune quando – vedi il caso dell’aggressione all’esponente di Forza Italia Osvaldo Napoli – vestono l’abito severo dei censori dell’intolleranza?

Per tornare alla nostra bella donna, è assai difficile che questo coté intellettuale e giornalistico possa trovare mai la forza di dirle alcune semplici verità: che la sua economia, benché acciaccata, non è un rottame da buttare via; che la sua sanità, il suo welfare, nonostante gli scricchiolii, restano di prim’ordine; che il suo tenore di vita, anche se meno scintillante rispetto al passato, è ancora tra i più elevati al mondo; che la crisi ha sì acuito le diseguaglianze e fatto crescere la povertà, ma di tutta evidenza è ridicolo, e poco rispettoso, avanzare paragoni con paesi in cui la povertà rappresenta la norma anziché l’eccezione, ancorché tragica. E così via. Magari ci sbagliamo. Magari i nostri opinion maker, aggrediti dai sensi di colpa, da domani inizieranno a dire la verità alla nostra bella donna. Ma lei non li ascolterà. E perché dovrebbe?

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