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Che cosa nascondono le traversie di Virginia Raggi e Giuseppe Sala

Virginia Raggi

Travolti entrambi da un insolito destino: Roma, la Capitale d’Italia, e Milano, quella “morale”. Non è la sola coincidenza. In entrambi i casi si tratta di cambiali giunte a scadenza. E andate in protesto per l’incuria del debitore. Le polemiche sui conti dell’Expo avevano caratterizzate la campagna elettorale che aveva portato alla vittoria, sul filo di lana, del sindaco Giuseppe Sala. Nessun sospetto sul candidato. Che, oggi, tuttavia è costretto a sospendersi per difendere la sua onorabilità. A Roma un continuo stillicidio. Carla Raineri il capo di gabinetto costretto alle dimissioni. Quindi la lunga processione di assessori al Bilancio: alcuni costretti a rinunciare, altri nominati solo per 24 ore. E infine quello attuale: carta nascosta del sindaco Raggi, buttata sul tavolo solo dopo aver bruciato, uno ad uno, gli altri pretendenti. E, su tutto, l’ombra di personaggi dibattuti tra i Cinque Stelle. Con Raffaele Marra che, alla fine, finisce in manette.

Se a tutto ciò sommiamo le vicende nazionali – i risultati del referendum, le dimissioni di Matteo Renzi, la nascita di un governo in assoluta continuità con il precedente – siamo totalmente sull’orlo di una crisi di nervi, che investe il profilo istituzionale del Paese. Questo è l’aspetto più preoccupante. Che invita a rompere gli indugi e cercare di rintracciare quel filo rosso che lega avvenimenti apparentemente diversi. Ma riconducibili a qualcosa di più profondo. E’ il totale fallimento di un rinnovamento annunciato, ma incapace di delineare un diverso orizzonte. In grado di dare risposte alle ansie ed alle speranze di un intero popolo.

Le debolezze delle diverse strategie erano evidenti fin dall’inizio. Non si può, non dico governare, ma gestire un Paese, che rimane ancora una piccola potenza industriale, brandendo la sola arma della “rottamazione”. Né invocare la semplice discontinuità – come fanno i pentastellati – in nome di una fumosa ideologia: usciamo dall’euro, aboliamo Equitalia, garantiamo a tutti il salario di cittadinanza. Una sorta di ritorno all’autarchia del bel tempo andato. “Asfaltare” la vecchia guardia, come pure è stato detto più volte, sia da parte del segretario del Pd, o tentato, come nel caso di Beppe Grillo, non basta. Se a questi propositi non si accompagna una diversa “visione”: capace di incidere sui nodi effettivi della situazione italiana.

Nel caso di Milano, il programma del neo-sindaco, una volta archiviata la fase elettorale, aveva assunto una diversa direzione. Più simile a quello del suo competitor – Stefano Parisi – che non in continuità con la giunta Pisapia. L’incidente di percorso determina un frattura profonda, che avrà conseguenza sugli equilibri politici più complessivi.

A Roma, invece, i pentastellati erano stati “miracolati”. Avevano vinto, senza combattere. Approfittando delle debolezze altrui: un Pd sconvolto dalla vicenda di Ignazio Marino. Un centrodestra, scomparso dai radar, per le sue divisioni interne. Preludio di quello che possono essere le future elezioni politiche.

Episodi che accendono un faro sulla crisi più profonda della società italiana. Sulla sua incapacità di rigenerarsi, dando luogo alla formazione di una classe dirigente capace di misurarsi con la complessità di una situazione sempre più difficile. Punto terminale del crollo di più antiche illusioni. La speranza, cioè, che un leader illuminato potesse, da solo, svolgere un ruolo di assoluta supplenza. Assumere su di sé l’onere complessivo del necessario cambiamento. Circondandosi, com’era inevitabile, di un pugno di fedelissimi.

Guardiamoci intorno. Questo è stato il modello prevalente della “Seconda Repubblica”. Che cos’era Forza Italia? Che cosa è stato il Pd di questi ultimi mille giorni? E che cos’è il Movimento 5 stelle? In quest’ultimo caso l’opacità è ancora maggiore, per la presenza di un soggetto privato – la Casaleggio associati – il cui perimetro d’intervento è del tutto sconosciuto. E dove la stessa presenza fisica dei militanti è sostituito dall’algoritmo che regola il traffico di internet. Può un Paese ad alta tradizione democratica, come il nostro, essere regolato da queste procedure? Configge con questo modello l’intera storia del ‘900.

Nel panorama occidentale, quello italiano si è sempre caratterizzato per la grande partecipazione popolare in tutte le forme associative: partiti, sindacati, associazionismo, corpi intermedi e via dicendo. Erano questi i grandi collettori del consenso politico, ma anche i luoghi della formazione della classe dirigente. Momento alto della vita nazionale, al punto da trovare un esplicito riferimento nell’articolo 49 della nostra Costituzione. Scelta anche obbligata per via delle grandi fratture – la guerra fredda – che caratterizzava la situazione internazionale. Ma non possiamo arrenderci all’idea che la partecipazione popolare sia solo conseguenza di uno stato di necessità. Imposto dalle alterne vicende di una sovrastante realtà mondiale. Mantenere questo punto di vista, sarebbe riconoscere che gli italiani non sono in grado di autogovernarsi in un clima di maggiore libertà. Una dichiarazione d’impotenza che legittimerebbe la tutela altrui: dalla BCE alla Commissione europea. La Grecia insegna. L’esaltazione di quel “vincolo esterno” che, per anni, ha caratterizzato alcune scelte di fondo della politica italiana.

Occorre porre fine a questo stato di cose. Nel più breve tempo possibile. Ciò di cui l’Italia ha bisogno è una rigenerazione della sua classe dirigente. Che non è né la “rottamazione”, né la “rivoluzione” teorizzata da Beppe Grillo. Occorre, al contrario, la pazienza di rimettere insieme competenze e rappresentanza. Quel capolavoro politico di cui è intessuta la storia dei grandi partiti politici italiani dalla fine del dopoguerra in poi. Quando, la loro direzione effettiva era affidata ad un ceto intellettuale, capace di respingere le soluzioni solo tecnocratiche. Mediandole con le esigenze più profonde dei ceti ch’erano chiamati a rappresentare.


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