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Vi racconto la malinconica gara fra Bersani e D’Alema a chi è più anti Renzi

Si sa che la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Ma non c’è stato verso di far ragionare nessuno in questi giorni nei piani alti dei palazzi della politica. Dove tutti hanno avuto una gran fretta di fare tutto.

A tamburo battente Matteo Renzi ha lasciato Palazzo Chigi, il presidente della Repubblica gli ha trovato un successore, credo indicatogli dallo stesso Renzi, e il nuovo presidente del Consiglio – il conte Paolo Gentiloni Silverj – ha formato il suo governo, in gran parte fotocopiato dal precedente, ma provvisto anche di qualche novità.

Già che c’era, Gentiloni ha anche definito meglio i confini della maggioranza uscente che si era impegnato a ricostituire, lasciando fuori Denis Verdini con quanta gioia per la sinistra del Pd e per i Renato Brunetta di turno vi lascio immaginare: la prima considerando Verdini un appestato e gli altri un traditore. Se poi i numeri al Senato balleranno, pazienza.

Le Camere non sono state da meno. Anche loro hanno messo il turbo nel loro motore con una fiducia che per poco non ha battuto il record del quarto governo di Giulio Andreotti. Che il 16 marzo 1978 si presentò alle Camere e ne ottenne la fiducia in poche ore, con dibattiti e voti obbligatoriamente separati. Ma quella volta si trattava di affrontare l’emergenza del sequestro di Aldo Moro e dello sterminio della sua scorta, a poca distanza da casa del presidente della Dc.

Questa volta non c’era né c’è emergenza di questo tipo. La presidente della commissione parlamentare d’inchiesta Rosy Bindi non corre rischi. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca, Enzo per gli amici, le spara addosso solo parole, magari prese in prestito dalle imitazioni che ne fa l’impareggiabile Maurizio Crozza.

Si è detto e si è scritto che bisognasse mandare Gentiloni al Consiglio Europeo del 15 dicembre con tutte le credenziali in ordine, come se qualcuno avesse potuto diversamente metterlo alla porta, o dietro una lavagna.

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La fretta non è mancata neppure alla direzione del Pd. Che, con la partecipazione a questo punto straordinaria del segretario uscente Renzi, visto che si stanno avviando le procedure di un congresso anticipato, ha espresso all’unanimità la fiducia al governo precedendo i gruppi parlamentari.

Ma la fiducia della direzione del Pd ha il difetto di essere cieca come i gattini della gatta frettolosa. Cieca perché contraddetta dalla minoranza coll’annuncio, a dir poco minaccioso, di Pier Luigi Bersani in persona che il governo dovrà “convincerci” ogni volta che gli toccherà di prendere una decisione o di presentare un disegno di leggere.

Convincere la minoranza, anzi le minoranze del Pd, non è impresa da umani. Lo si è visto anche nella campagna referendaria, quando gli impegni chiesti e ottenuti da Renzi di modificare la legge elettorale della Camera e di predisporre l’elezione diretta e non più indiretta del nuovo Senato, sono stati declassati dalla sera alla mattina a un “foglietto” inattendibile, strappato e buttato nel primo cestino a portata di mano.

Il problema della o delle minoranze del Pd non è di essere convinte dall’interlocutore di turno, ma di imporgli le loro convinzioni. Non ci sono vie di mezzo.

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Ah, com’è diverso il Bersani di oggi da quello che mi fu presentato dal comune amico Carlo Donat Cattin a cena in uno dei convegni annuali della corrente democristiana di sinistra “Forze Nuove”, a Saint Vincent.

Il Bersani d’allora, assessore e credo anche vice presidente della sua regione, l’Emilia Romagna, mi fece una così buona impressione, da moderato e quasi liberale, che al termine della cena, quando rimanemmo soli, chiesi a Carlo Donat Cattin come mai il suo ospite fosse comunista. E lui mi rispose: “Me lo chiedo continuamente anch’io”.

Da allora il comunismo è bello che morto e sepolto. Ma Bersani ha trovato una rigidità e una durezza sorprendenti. Eppure egli sa bene che in nome della giustizia, della libertà, dell’uguaglianza, della lotta alla povertà, dell’equità e di tante altre belle cose si sono compiute nel mondo, in ogni tempo, le nefandezze peggiori.

Forse neppure lui se ne rende conto, ma temo che il Bersani di una volta sia stato travolto, come sotto un cingolato, dalla competizione, consapevole o no che sia, con Massimo D’Alema per la leadership dell’antirenzismo, o di quel che resta del renzismo dopo la botta referendaria del 4 dicembre. Che le minoranze del Pd gli hanno inferto saltando sulle barricate del no alla riforma costituzionale costruite da Beppe Grillo, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Renato Brunetta, un Silvio Berlusconi in edizione sismica, Antonio Ingroia e tanti altri con i quali un Bersani dei tempi di Saint Vincent non avrebbe preso neppure il caffè.

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Per quanto il suo governo sia nato troppo in fretta, e non si sia riusciti a capire se il suo compito sia quello di portarci alle urne il più presto o il più tardi possibile, una volta “armonizzate”, come dice Mattarella, le regole elettorali per la Camera e il redivivo Senato, il conte Gentiloni merita gli auguri. Che gli faccio, o facciamo, con tutta la sincerità dovuta, non foss’altro, alla sua educazione.

Egli ha già colto un successo facendo litigare, sia pure a distanza, il fondatore del Fatto Quotidiano Antonio Padellaro e il direttore Marco Travaglio, avendo il primo fatto gli elogi del nuovo presidente del Consiglio, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, dopo che l’altro lo aveva liquidato scrivendone come di un sughero galleggiante o una pianta grassa.

Matteo Renzi invece nella sua pur sfortunata campagna referendaria era riuscito, sempre nella famiglia del Fatto Quotidiano, a far litigare Travaglio con Michele Santoro. Un successo non da poco pure quello.


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