Il Papa che guarda all’Asia, si disse subito, già nei mesi immediatamente successivi all’elezione di Francesco al Soglio petrino. Contava di certo la vocazione “orientale” del Pontefice gesuita che da giovane voleva farsi missionario in Giappone, ma vi era anche altro. Vi era, soprattutto, la consapevolezza che la Chiesa doveva orientarsi (ri-orientarsi) verso le periferie più lontane. Non solo quelle sociali, ma anche quelle geografiche, dove spesso il cristianesimo (e il cattolicesimo) cresce a ritmi ben più impetuosi rispetto a quelli registrati negli ultimi decenni nei tradizionali e storici centri d’irradiazione della religione cristiana, Europa in primis.
IL GRAN TOUR IN ORIENTE
Bergoglio ha confermato tale previsione, facendo dell’oriente asiatico uno dei continenti da lui più visitati. Benedetto XVI, in otto anni di papato, non vi aveva mai messo piede, se si eccettuano le due tappe nel vicino oriente, Terra Santa e Libano. Francesco è andato in Corea del sud, nelle Filippine, in Sri Lanka, in Giordania, Israele e Palestina. Presto andrà in India e Bangladesh. Un disegno chiaro, che va nella direzione di esaltare la cattolicità (cioè l’universalità) della chiesa. Ma l’obiettivo, neppure più segreto, è uno soltanto: la Cina.
LA DIPLOMAZIA SUL DOSSIER PECHINO
Il Papa a tale riguardo si è sempre mostrato prudentissimo, parco di parole e riservato. Quel che ha detto è sempre stato improntato a una chiara disponibilità a mettere da parte i contrasti del passato ed aprire una nuova fase. A ogni modo, ci vorrà tempo, e Francesco questo l’ha sempre rimarcato, sottolineando che le cose che riescono meglio sono proprio quelle meditate e non fatte di fretta. I segnali di un nuovo corso sono chiari, a cominciare dai gesti simbolici come il permesso di sorvolo concesso da Pechino all’aereo papale diretto a Seoul nell’agosto del 2014. Ma v’è anche lo scambio di telegrammi tra il Pontefice e Xi Jinping e le varie note diffuse dalle agenzie di stampa cinesi.
IL NEGOZIATO PIU’ DIFFICILE
Eppure, il lungo negoziato ancora non ha beneficiato di passi pubblici chiari che facciano intravedere una soluzione imminente. Il dossier risulta delicato non solo per l’atteggiamento originale delle autorità cinesi, quanto perché al piano meramente politico si sovrappone quello relativo alle questioni ecclesiastiche, con la contesa per la nomina dei vescovi e la presenza della cosiddetta “chiesa sotterranea” fedele al Papa e contrapposta a quella ufficiale dipendente dalle autorità governative.
LA RESISTENZA DEL CARDINALE ZEN
Uno dei più determinati oppositori a ogni accordo è ancora il cardinale Joseph Zen, arcivescovo emerito di Hong Kong. A suo giudizio, non vi sono i presupposti, ora, per giungere ad un’intesa con il governo. Ogni soluzione sarebbe dunque un appeasement, un cedere alle pretese di Pechino. Alimentando così la sofferenza delle comunità cristiane locali. La Santa Sede, anche grazie all’opera del segretario di stato Pietro Parolin, massimo conoscitore in Vaticano delle questioni cinesi, tratta il tutto con estrema delicatezza. I colloqui procedono, ma il rischio di scontri e incomprensioni è sempre presente. Per questo, nonostante indiscrezioni e rumor che da tempo circolano anche a livelli alti e autorevoli, la Segreteria di stato mantiene il riserbo più stretto, chiedendo tempo e pazienza.
UNA SVOLTA STORICA
Ma è chiaro che un’apertura della Cina alla chiesa cattolica segnerebbe una svolta di portata storica, con conseguenze che andrebbero ben al di là della semplice (seppur importante) relazione diplomatica tra la Santa Sede e Pechino. Sarebbe anche la definitiva consacrazione del Vaticano quale attore geopolitico universale, riconosciuto da tutti come centro in grado di proporre e attuare mediazioni nelle più delicate e controverse crisi politiche internazionali. Si tratterebbe, inoltre, della vittoria di quella politica “dei piccoli passi” che da anni viene perseguita in Vaticano alle latitudini più diverse.