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I Talebani sono i primi sfidanti internazionali di Trump

Mercoledì i Talebani, il gruppo jihadista ribelle in Afghanistan, ha diffuso un video che riprende due ostaggi, l’australiano Timothy Weekes e l’americano Kevin King, entrambi professori dell’Università americana di Kabul rapiti dal campus ad agosto del 2016, supplicare il governo americano di fare qualcosa per la loro liberazione – altrimenti verremo uccisi, dicono. I due protagonisti delle angoscianti riprese si fanno portavoce delle richieste del gruppo combattente che vorrebbe la liberazione di alcuni prigionieri detenuti dagli americani nella base aerea di Bagram e nel carcere di Pul-e-Charkhi in cambio del rilascio dei due insegnanti.

LA RICHIESTA A TRUMP

Non è tanto la notizia del video quanto il fatto che per la prima volta i due ostaggi occidentali si rivolgano direttamente al presidente eletto Donald Trump ad essere di rilievo: “Sir Donald Trump, per favore, ti chiedo, per favore, tutto è nelle vostre mani, io chiedo per favore di negoziare con i talebani. Se non negoziate con loro, ci uccideranno” dice Weekes. La liberazione dei due è infatti uno dei vari aspetti critici che l’attuale amministrazione americana lascia sul groppone dei successori per quanto riguarda l’Afghanistan. Se si pensa che l’American University of Afghanistan dove i due insegnavano è stata creata nel 2004 tra i simboli costruttivi per la prospettiva futura del paese, dopo che gli americani avevano combattuto e disciolto l’oscurantismo del regime talebano, e che cinque mesi fa, a distanza di una dozzina di anni dall’istituzione, due insegnanti sono stati rapiti dai ribelli radicali prima di tenere lì una lezione, il messaggio video è di per sé simbolo granitico di come le cose in Afghanistan non siano andate bene.

LE FALLE AMERICANE

Mesi fa, qualche giorno dopo del rapimento dei due insegnanti, un blitz del DEVGRU dei Navy Seals aveva fatto fiasco nel tentativo di liberarli: ed è un altro paradigma della situazione, se gli uomini che hanno ucciso Osama Bin Laden vanno a vuoto nel tentativo di liberare due ostaggi. Giovedì Washington ha ammesso che durante un’operazione condotta a novembre che avrebbe dovuto avere come obiettivo la cellula che aveva organizzato l’attacco talebano a Kunduz l’ottobre del 2015, quando i soldati americani si sono trovati alle strette tra il fuoco dei ribelli e hanno richiesto il supporto aereo, il bombardamento di protezione ha ucciso 33 civili. Ed è anche sul ripetersi ormai decennale di vicende come queste che le istanze radicali del gruppo islamista prendono vento.

IL RITORNO DEI TALEBANI

Nell’ultimo anno e mezzo i Talebani sono tornati all’offensiva (Kunduz fu proprio un evento sintomatico). Hanno conquistato diverse fette di territorio, anche perché vivono una concorrenza interna contro lo Stato islamico (le cui predicazioni cercano continui proseliti nelle aree dove le posizioni più radicale hanno già attecchito, caso analogo per esempio a Gaza) che richiede dimostrazioni di attività e forza per bloccare potenziali smottamenti interni. Ma tra le ragioni di questa ripresa c’è anche il fatto che il sistema di sicurezza nazionale che gli Stati Uniti e i paesi Nato doveva ricostruire ha delle falle enormi. L’Ispettore generale dell’organismo americano che supervisiona la ricostruzione ha fatto sapere che secondo le sue informazioni ci sono uomini dell’esercito afghano che vendono armi ai talebani, ossia armi occidentali che dovrebbero servire per creare l’apparato di sicurezza spina dorsale del paese finiscono in mano dei ribelli che combattono le forze occidentali. Anche per far fronte a questa situazione gli americani hanno approvato la scorsa settimana l’invio in primavera di un contingente di 300 Marines diretto a Helmand: e questo va assolutamente contro la politica di Barack Obama, che aveva promesso il ritiro completo ai tempi dell’insediamento, ma si era trovato costretto già lo scorso anno a confermare la permanenza nel paese di diverse migliaia di militari. Ora Trump ha davanti a sé un piano di rafforzamento tattico dell’impegno armato americano in Afghanistan già approvato, e nonostante le dichiarate volontà strategiche di disingaggio, ripartirà da dove Obama aveva lasciato, male, la situazione non idilliaca ereditata da Bush – in quello che appare uno stallo continuo. E questo significa che la situazione durerà anche per l’impegno degli alleati, come l’Italia.

I PROXY IN AFGHANISTAN

Negli ultimi giorni ci sono stati attentati a Kabul (oltre quaranta morti vicino al parlamento) e a Kandahar che però i talebani non hanno rivendicato, forse anche perché è rimasto ucciso l’ambasciatore emiratino e altri uomini del suo staff – e gli Emirati Arabi sono un paese necessario per la diplomazia talebana. In una bella analisi, il giornalista della BBC Dawood Azami, ha scritto che ormai sulla crisi tra Talebani e governo afghano ci stanno mettendo le mani diverse potenze regionali a mo’ di proxy war. Per esempio l’Iran, che si sta offrendo come supporter diplomatico dei ribelli: a maggio del 2015 la delegazione politica talebana che ha sede semi-ufficiale in Qatar era in Iran per incontri di alto livello, e a maggio del 2016 il capo dei talebani, il mullah Mansour, fu ucciso da un raid aereo americano mentre tornava da una visita alla sua famiglia messa al sicuro in Iran. Poi c’è la Russia: a dicembre è stato il comandante delle forze statunitensi nel paese John Nicholson a confermare questi legami e a criticare russi e iraniani. In un’altra analisi uscita sul Daily Beast, Thomas Joscelyn, senior fellow della Foundation for Defense of Democracies, ha definito i Talebani afghani il “gruppo di jihadisti preferiti dalla Russia” – è un ribaltamento forte, se si pensa che la prima jihad internazionale è proprio quella dei mujaheddin che risposero all’invasione sovietica. Sia Mosca che Teheran però si sarebbero inserite nella crisi afghana dopo che nel gennaio del 2015 lo Stato islamico ha annunciato la creazione della provincia del Khorasan, regione storica che attraversa parti di Afghanistan, di Iran, di Turkmenistan e Uzbekistan. Nel caso, i talebani, che mantengono un progetto nazionalista, sarebbero il male minore e rappresentano la forza di contrasto da appoggiare per evitare il contagio dei baghdadisti. A questa pragmatica si aggiunge la volontà di andare contro i piani occidentali: gli ayatollah, come fecero con al Qaeda, bilanciano questo interesse interno con il piacere di dare supporto a gruppi (sebbene distanti ideologicamente: i talebani sono sunniti, gli iraniani sciiti) che combattono gli Stati Uniti e alleati. I russi pure.


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