A volte basta una battuta, come sui giornali una vignetta, per rappresentare al meglio una situazione pasticciata, anzi pasticciatissima.
La battuta questa volta è del conte Paolo Gentiloni Silverj, che in trasferta a Madrid ma col pensiero diviso tra la manovra finanziaria che hanno chiesto al suo governo da Bruxelles e i giorni da lui trascorsi di recente al Policlinico Gemelli per farsi rimettere a posto il ritmo cardiaco, ha detto che gli viene “lo scompenso” all’idea di dovere accontentare la Commissione Europea. Ed ha aggiunto, dandosi un po’ di coraggio, ma francamente non so con quanta convinzione, che non ci pensa proprio ad adottare misure “depressive”.
Contemporaneamente il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan avvertiva a distanza che sarebbe “un serio problema” per il nostro Paese incorrere nella cosiddetta procedura d’infrazione minacciata più o meno chiaramente, fra un sorriso e una sbrigativa stretta di mano, dai suoi interlocutori a Bruxelles.
Se con una manovra d’intervento, diciamo così, limitato il povero conte Gentiloni rischia lo scompenso, provo a immaginare che cosa potrebbe capitargli, in caso di mancate elezioni anticipate a giugno, quelle reclamate dal segretario del Pd Matteo Renzi, la preparazione in autunno della cosiddetta legge finanziaria, o di stabilità, del prossimo anno. Che si prospetta come una legge di lacrime e sangue, destinata ad entrare in vigore il primo giorno del 2018, cioè poche settimane prima delle eventuali elezioni alla scadenza ordinaria della legislatura perorate da tutti gli avversari di Renzi, compreso il presidente del Senato Pietro Grasso, alla faccia del suo mandato istituzionale. Che dovrebbe metterlo al di sopra delle parti, cioè in una posizione neutrale.
Qui, illustrissimi signori e padroni dei palazzi della politica, se veramente vi sta a cuore il nuovo presidente del Consiglio, di cui tanto tessete gli elogi per i modi così diversi dal suo predecessore, dovete rendervi conto che lo state spingendo di nuovo verso l’ospedale chiedendogli di restare al suo posto e di mettersi di traverso pure lui sulla strada delle elezioni anticipate. Con le quali invece si può cercare di salvare “il soldato Gentiloni”, parafrasando il titolo di un famoso film sullo sbarco in Normandia, in cui il soldato si chiamava Ryan.
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Anche le foto, come le battute e le vignette, hanno una grandissima capacità esplicativa. Fermatevi, per favore, ad osservare quella che ha ripreso l’incontro, nella Casa Bianca, fra il nuovo presidente americano Donald Trump e la premier britannica Theresa May: l’una a destra e l’altro a sinistra del piccolo busto di Winston Churchill che Trump ha fatto rimettere al suo posto, nello studio ovale, dopo una lunga e ingenerosa rimozione.
La foto riporta indietro di parecchio tempo la rappresentazione dello scenario politico internazionale, come in Italia d’altronde si sta tornando all’indietro con la gran voglia che si ha del sistema elettorale proporzionale. Il passato evidentemente va di moda, piace ad una crescente quantità di gente delusa dal nuovo e timorosa del nuovissimo.
Anche sul piano fisico, se permettete, senza voler essere inopportuno verso la giovane, forse troppo giovane moglie del nuovo presidente americano, con quelle riprese televisive che ne hanno immortalato il disagio procuratole da qualcosa appena dettole o sussurratole dal marito, quella di Trump e della May sembra una coppia meglio assortita. Molti l’hanno paragonata politicamente e fisicamente, forse non a torto, alla coppia d’altri tempi dell’americano Ronald Reagan e della britannica Margaret Thatcher. Non parliamo poi di quella “meraviglia” della cosiddetta Brexit espressa da Trump con grande soddisfazione della sua ospite.
Solo a Bruxelles, e a Berlino, sembra che non si siano ancora accorti di quel ch’è accaduto sul piano internazionale e potrebbe ancora accadere. Per una volta, mi riconosco perfettamente nella reazione, in Italia, di Romano Prodi. Che, avendo presieduto a Bruxelles la Commissione Europea in altri tempi e conoscendo quindi bene i suoi polli, ha protestato per l’indifferenza con la quale si è salutato in Europa l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, senza che nessuno avesse avvertito la necessità di improvvisare un vertice per fare il punto della situazione.
A Bruxelles, e Berlino, hanno evidentemente altre cose più urgenti o vitali di cui occuparsi: i nostri conti, quelli italiani, e le spese da scontare, anzi da non scontare, per i terremoti e altre calamità naturali di casa nostra che hanno disturbato lor signori controllori europei.
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Sorpresa per sorpresa, lasciatemi riconoscere per una volta anche nel fastidio di Marco Travaglio – sì, proprio lui, il direttore del Fatto Quotidiano – per il modo un po’ troppo giustizialista in cui giornali dichiaratamente garantisti stanno seguendo le vicende giudiziarie della sindaca grillina di Roma Virginia Raggi. Che, prima ancora di essere interrogata lunedì prossimo in Procura sull’abuso d’ufficio e il falso di cui è sospettata o accusata, si è trovata mediaticamente già condannata o in procinto di patteggiare, con tutte le complicazioni che potrebbero venirne sul mandato conferitole dagli elettori.
Personalmente, non so se la Raggi abbia fatto davvero abusi d’ufficio e compiuto falsi, e di che tipo. So però, dalle cronache, che se ha compiuto abusi ne ha anche subìto: ad opera non solo di collaboratori sbagliati da lei scelti ma anche del suo movimento politico. Che ha mostrato più di commissariare che di proteggere la sindaca, come ora vorrebbe far credere invece il “garante” Beppe Grillo riempiendo dei soliti improperi i giornali.
Anche in Campidoglio, come al vicino Palazzo Chigi, c’è forse un soldato, in questo caso una soldatessa, da salvare.