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Vi racconto le figure barbine di Beppe Grillo e Guy Verhofstadt

E’ una doppia sconfitta, quella di Beppe Grillo. La prima strategica, la seconda tattica. L’alleanza con Nigel Farage, leader dell’Ukip, si era dimostrata un fallimento. Troppo subalterno era risultato quell’appoggio nei confronti di una personalità che aveva come obiettivo prioritario quello di portare il suo Paese fuori dall’Unione europea. Grillo aveva dato una copertura a quel progetto, fornendo le truppe indispensabile per consentire al primo di presentarsi, di fronte agli inglesi, con una forza maggiore. Con risultati minimi a favore del suo gruppo nel Parlamento europeo: nessun riconoscimento politico. Una totale emarginazione dei deputati pentastellati da qualsiasi posizione di rilievo istituzionale. Costretti solo ad un lavoro da cirenei nell’indifferenza generale. Basta vedere le presenze. I pentastellati ai primi posti, gli uomini di Farage, giustamente dal suo punto di vista, del tutto assenti.

Ancora più bruciante il “No, grazie” dei liberal-democratici alla richiesta di costituire un gruppo comune, nonostante le differenze programmatiche abissale tra le due forze politiche. Per Grillo era stata una svolta di 180 gradi. Passava dal “No euro” e dallo statalismo più spinto, all’esaltazione del progetto europeo declinato in chiave iperliberista. Non è un caso se Mario Monti, che è stato uno dei tessitori dell’accordo poi naufragato, fa parte di quell’establishment. Che poi lo stesso Grillo è stato costretto a condannare con parole roboanti. Che non eliminano certo la bruciatura della sconfitta, ma somigliano fin troppo alla favola di Esopo della volpe e l’uva.

Morale della storia: non se ne farà nulla. A causa della rivolta degli esponenti liberal-democratici. Che hanno saputo contrastare le mire stesse del loro presidente. Guy Verhofstadt, che aveva bisogno dei voti grillini per tentare la grande scalata alla presidenza del Parlamento, ponendosi, come terzo incomodo, nella lotta aperta tra i due italiani: Antonio Tajani, per i popolari e Gianni Pittella per i socialisti. Mossa tutta tattica la sua. Tentata senza concedere alcunché sul piano programmatico, ma regalando ai grillini quel riconoscimento, in termini di risorse e di poltrone, che finora era mancato a causa della loro politica di isolamento politico. Qualche vice presidenza ed un po’ di risorse finanziarie, finora negate a causa della scarsa massa critica messa in campo.

Senonché in Europa la politica conta ancora. Come emerge dallo scarno comunicato che lo stesso Verhofstadt è stato costretto a licenziare, al termine della discussione all’interno del suo gruppo. “Sono arrivato alla conclusione – ha scritto – che non vi sono garanzie sufficienti per portare avanti un’agenda comune per riformare l’Europa. Non vi è un retroterra sufficiente per accogliere la richiesta del Movimento 5 Stelle di convergere nel gruppo di Alde. Rimangono differenze fondamentali sui principali temi europei. Tuttavia su alcuni dossier di comune interesse, relativi all’ambiente, la trasparenza e la democrazia diretta, il Gruppo Alde ed il Movimento 5 stelle continueranno a lavorare in stretto coordinamento”. Secco commiato, con qualche piccola concessione al bon ton.

I grillini tornano, quindi, con le pive nel sacco. A dimostrazione che il trasformismo, malattia endemica italiana, in Europa è un’arma spuntata. E che di questo si tratti, basta leggere le dichiarazioni di Luigi Di Maio che, arrampicandosi sugli specchi, parlava di una “scelta tecnica”. Ma che significa? Per poi ribadire “Siamo contrari agli Stati Uniti d’Europa nel lungo periodo e vogliamo subito un referendum sull’euro”. Chi sa come avrà reagito Mario Monti a queste parole, considerato il ruolo svolto in tutta questa vicenda ed il suo endorsement pubblico all’iniziativa. La verità è che non basta un voto plebiscitario dei “cittadini” – ancora una volta il 78,5 per cento dei votanti – per darsi una verginità. Occorre una percezione del reale che il Movimento, come mostrano i casi di Roma e non solo, è ancora lungi dal possedere. Finora le altre forze politiche italiane, a causa delle loro interne contraddizioni, hanno lavorato per il Re di Prussia. Regalando loro uno spazio politico spropositato. Ma la ruota gira. Ed alla fine i conti si fanno. Anche se bisogna uscire, almeno per il momento, dai confini nazionali.



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