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Vi racconto obiettivi, deroghe e problemi della direttiva Bolkestein

laurearsi, sindacati roma Giuliano Cazzola, consulta

Frits Bolkestein, chi era costui? E’ presto detto. Dal suo curriculum vitae si apprende che è nato in Olanda nel 1933, ha tre figli, è stato dirigente della Shell prima di passare alla politica nel 1978 come parlamentare liberale. Da ministro, ha ricoperto diversi incarichi nei governi del suo Paese. E’ divenuto, poi, presidente dell’Internazionale liberale alla fine degli anni ’90 prima di essere nominato commissario europeo al mercato interno, tasse e dogane. Un normale cursus honorum, dunque, come quelli di tante altre personalità a cui sono state affidate, nel tempo, le sorti dell’Unione. Eppure, questo signore (oggi pensionato ed intento a curare i tulipani del giardino) è riuscito a scrivere il suo nome nell’elenco dei “cattivi” del Vecchio continente. Tanto che, nei giorni in cui le città sono state messe a soqquadro dalla protesta dei tassisti, a loro si sono uniti anche i venditori ambulanti che ce l’avevano con la direttiva (ex)Bolkestein (come si chiama ora, dopo il radicale ridimensionamento a cui venne sottoposta nei primi anni 2000).

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Nel suo ruolo di commissario europeo Bolkestein propose (nel 2004) il testo di una direttiva rivolta ad allargare il mercato interno al settore dei servizi. Si trattava di dare corso non solo ad un impegno previsto dai Trattati (addirittura da quello istitutivo del lontano 1957), ma persino ad un’incombenza assolutamente coerente con le scelte già compiute dall’Unione (rafforzate dall’allora imminente prospettiva dell’allargamento) sul piano delle grandi strategie d’ordine economico. Già allora il mercato dei servizi rappresentava il 70% delle attività economiche europee, garantiva il 68% dell’occupazione complessiva ed era ritenuto in grado di offrire le maggiori opportunità per l’ulteriore crescita dei posti di lavoro nell’ambito di quell’economia della conoscenza posta alla base del programma di Lisbona 2000. Si stimava allora che la creazione di un mercato unico dei servizi avrebbe determinato un incremento a medio termine dello 0,6% del Pil e dello 0,3% del tasso d’occupazione, mentre l’integrazione dei mercati finanziari avrebbe prodotto una riduzione, sempre a medio termine, del costo dei finanziamenti per le imprese di circa lo 0,5% con un aumento dell’1,1% del Pil e dello 0,55 del tasso d’impiego a lungo termine.

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Nell’Unione (a livello dei Quindici) si costituì ben presto una coalizione di Stati (il blocco di lingua tedesca stabilmente alleato coi Paesi nordici ovvero i Paesi connotati da pesanti modelli di welfare pubblici) che puntava ad escludere l’applicazione della direttiva al comparto dei servizi sociali tout court, all’insegna dello slogan “i servizi sociali non si toccano”. In base a tale principio, gli Stati avrebbero potuto conferire finanziamenti anche nel caso di attività indubbiamente di carattere economico e di mercato, purché collegate ai servizi sociali. La posta in gioco riguardava, dunque, la possibilità o meno di finanziare con risorse pubbliche tali servizi senza violare i principi fondamentali della libera concorrenza.

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Nonostante l’esistenza di un largo consenso sulla necessità e i vantaggi di un mercato unico dei servizi, dopo l’allargamento ad Est nel maggio del 2004 si era materializzato un altro elemento di preoccupazione in molti Paesi membri nei confronti della proposta di direttiva Bolkestein, in quanto le innovazioni erano accusate di compromettere la tenuta del modello europeo accrescendo i rischi di “dumping sociale” all’interno dell’Unione, da parte, appunto, dei nuovi Paesi membri. Si materializzò “la sindrome dell’idraulico polacco’’ che scorazzava per le contrade dell’Unione facendo concorrenza ai bravi artigiani francesi e tedeschi.

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Per farla breve, il 16 febbraio 2006 il Parlamento europeo approvò un testo della direttiva zeppo di principi altisonanti ma caratterizzato da un elenco di esclusioni (i servizi di assistenza sociale di mano pubblica) e di deroghe (alloggi popolari; servizi di cura; servizi di interesse generale prestati e definiti dagli Stati membri a titolo degli obblighi di tutela del pubblico interesse; servizi finanziari, pensionistici individuali, bancari, di consulenza; agenzie di lavoro interinale; servizi di trasporto, taxi compresi; lotterie; attività sportive senza scopo di lucro e quant’altro). Restarono escluse – lo erano fin dall’inizio – le normative riguardanti il mercato del lavoro (“i prestatori di servizi debbono conformarsi alle condizioni di occupazione applicabili, in alcuni settori elencati, nello Stato membro in cui viene prestato il servizio”). I liberi professionisti, nel frattempo, si erano già sfilati da soli. Ecco perché – depotenziata come era – la direttiva venne rinominata con la vistosa premessa dell’ex.

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Qualche aspetto di quella direttiva però è sopravvissuto. Entro il maggio di quest’anno gli Stati membri dovranno rimettere a bando le concessioni rilasciate negli anni dagli enti locali, dando la possibilità di aprire un’attività commerciale su area pubblica a tutti i cittadini europei, senza limite di nazionalità, in un qualunque Paese dell’area Ue. Di recente, pertanto, in ottemperanza di una sentenza della Corte di Giustizia, il governo ha presentato un disegno di legge delega per il “riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico ricreativo per favorire, nel rispetto della normativa europea, lo sviluppo e l’innovazione dell’impresa turistico-ricreativa”. Questa iniziativa ha suscitato le preoccupazioni e le proteste preventive delle categorie interessate, con la sollecita protezione delle forze politiche populiste.

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Con i tempi che corrono, i governi fanno a gara per prendere le distanze da quanto dispone la Ue e ad inseguire tutte le spinte e le sollecitazioni contrarie al cambiamento. Tuttavia, la battaglia per la liberalizzazione dei servizi nel mercato interno è stata persa una decina di anni or sono (Daniel Gros definì quella sconfitta come “un colpo potente e forse fatale inferto all’Agenda di Lisbona 2000’’), quando l’idea della integrazione era ancora forte e vincente. Chi, allora, non volle sfidare le potenti lobby oggi rischia di essere snobbato persino dalle consorterie corporative dei bagnini e degli ambulanti, che difendono le loro modeste rendite di posizione.



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