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La visita di Mike Pompeo (Cia) in Turchia. Fatti e analisi

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Il direttore della Cia di nomina trumpiana Mike Pompeo giovedì è andato in visita in Turchia: il primo viaggio all’estero, proseguito poi verso l’Arabia Saudita, ha interessato due paesi strategici per la lotta la terrorismo e per l’influenza nel Medio Oriente (a Riad ha premiato con la Georg Tenet Medal il principe ereditario Muhammed bin Nayef per l’impegno contro il terrorismo).

LA TELEFONATA

L’incontro del capo dell’intelligence americana è stato deciso martedì durante una telefonata molto cordiale durata trequarti d’ora tra il presidente Donald Trump e il suo omologo Recep Tayyp Erdogan. Almeno stando alle informazioni ufficiali diffuse da Ankara, dietro alle quali c’è molto storytelling: e infatti media vicini al presidente come lo Yeni Safak dicono che tra le cose che si sono detti i due presidenti c’è stata la pianificazione per azioni congiunte al nord della Siria. Pompeo sarebbe andato ad implementare l’intesa. Quando intendono questo i turchi parlano dell’operazione Scudo dell’Eufrate, quella con cui i militari regolari appoggiati da alcune unità dei ribelli hanno liberato un’ampia fetta di territorio dall’infestazione dello Stato islamico.

AL BAB, RAQQA, GULEN

La battaglia ora è arrivata ad Al Bab, un città che è una roccaforte poco nota dell’IS ma che ha fatto da base alla divisione baghdadista che si è occupata degli attentati organizzati all’estero (come quello di Parigi). Il secondo tema della telefonata, e dunque anche dell’incontro, è stato l’estradizione di Fetullah Gulen, il nemico politico di Erdogan su cui pende l’accusa di organizzatore del golpe della scorsa estate. Gulen si trova in Pennsylvania, Ankara chiede da mesi il suo ritorno in Turchia, dove lo attende una punizione severissima. La pratica è stata finora negata dalla vecchia amministrazione Obama (cosa che ha inasprito i rapporti, insieme allo scarso impegno a sostegno della missione Scudo), ma adesso potrebbe essere ripresa in considerazione, anche perché Michael Flynn, il consigliere per la Sicurezza nazionale che in passato aveva interessi in Turchia e ora ha buon ascendente sul presidente, la vede come una specie di offerta da sacrificare sull’altare dell’alleanza.

L’ALLEANZA

La telefonata con Erdogan non è stata fra le prime fatte da Trump, e forse questo è già di per sé indicativo di come venga vista quest’alleanza, anche se la Casa Bianca nel resoconto ha definito la Turchia “un partner strategico e un alleato Nato”. È il solito gioco del dare/avere. Ankara fondamentalmente chiede a Washington maggiore vicinanza, da dimostrare con l’impegno su Al Bab e su Gulen: ma se il secondo pare anche minimamente probabile, è improbabile che gli annunci del governo turco a proposito dell’aumento del coinvolgimento americano fianco a fianco sul nord siriano siano altro che propaganda. Ankara dichiara che una volta presa Al Bab una coalizione turco-americana andrà diretta su Raqqa, che è la più conosciuta delle roccaforti dell’IS in Siriae si trova a circa duecento chilometri più a est. Il problema che rende questo percorso quasi impossibile è presto detto: gli Stati Uniti hanno confermato in queste prime settimane di presidenza di voler aumentare il proprio supporto alle Sdf, il nome politico di una milizia curdo araba che Washington sta usando come boots on the ground per accerchiare Raqqa. Il piano è in uno stato avanzatissimo, e gli alleati americani stanno già circondando la città. In questa partnership non c’è spazio per i turchi, che considerano i curdi siriani terroristi e sono altrettanto detestati come trattamento di ritorno.

AVVICINARSI ALLA RUSSIA

Muoversi con i turchi però per Trump potrebbe avere il valore di un avvicinamento alla Russia (un altro dei possibili test per verificare se val la pena di impiantare futuri rapporti). Mosca fornisce collaborazione alla Turchia attraverso la copertura aerea (che però l’altro ieri non ha funzionato, e un buco di comunicazione terra-aria ha messo tre soldati turchi sotto le bombe russe: circostanza risolta con le condoglianze del Cremlino e con uscite laterali che mandavano un messaggio chiaro, la prossima volta state più attenti). Soprattutto Mosca ha il compito di tenere buono il regime e far accettare a Damasco che un nemico dichiarato come la Turchia mandi dei suoi soldati sul proprio territorio; non solo, perché quei soldati lavorano insieme a gruppi di ribelli che hanno come principale obiettivo la caduta del regime. Fino a che punto Trump deciderà di fidarsi?

LE COMPLICAZIONI

La situazione è complicata ad Al Bab. Sullo sfondo incongruenze di base: Charles Lister, ricercatore molto esperto sul conflitto siriano, dice di aver chiesto ad alcuni comandanti dei ribelli siriani che combattono insieme ai turchi cosa potrebbe succedere se le forze governative siriane, che si trovano a pochissimi chilometri da Al Bab dopo aver riconquistato Aleppo ad altri gruppi (anche alleati) di quegli stessi ribelli, dovessero entrare nei territori ripresi dalla Scudo. “Li attaccheremo, of course” è stata la risposta. E questo è il principale dei problemi: che ne sarà di quelle terre una volta che anche Al Bab sarà presa? La Turchia fa parte con Russia e Iran del terzetto che ha promosso l’iniziativa di Astana per cercare un accordo di pace in Siria: Damasco partecipa ai negoziati, ma non sembra interessata a cessioni di sovranità. Stante i fatti, per Washington potrebbe essere più facile diplomaticamente cavalcare, adesso, i curdi siriani piuttosto che l’offensiva turca anche in quest’ottica: un conto è difendere i diritti di un minoranza etnica che rivendica una qualche indipendenza (detto brutalmente: alla fine, per ragioni di ordine superiore, possono essere anche traditi) su un territorio non formalmente riconosciuto, un altro è mettersi a fare la guerra insieme a una nazione sovrana membro della Nato contro un alleato russo. Per questo da Washington i commenti sulla visita di Pompeo non sono usciti.



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