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Perché in Turchia Erdogan non è felice per l’uscita di Flynn dalla squadra di Trump

Le dimissioni del consigliere capo per la Sicurezza nazionale americana potrebbero colpire anche le ambizioni della Turchia, che sta cercando di ricostruire un rapporto con Washington basato anche sui collegamenti aperti da Michael Flynn.

IL NEW DAY TURCO

Da quando il direttore della Cia Mike Pompeo è andato in Turchia, dopo la telefonata tra il presidente americano Donald Trump e l’omologo turco Recep Tayyp Erdogan, il governo di Ankara rilancia propaganda sull’inizio di una nuova era di relazioni; nuove al punto che gli facciano dimenticare il complicato rapporto avuto con l’amministrazione Obama. Erdogan è passato tranquillamente sopra alla volontà di Trump di catalogare la Fratellanza musulmana come gruppo terroristico, questione che in termini più brutali può essere definita una dichiarazione di guerra all’Islam politico, di cui l’AKP di Erdogan è uno dei massimi pesi internazionali; e il presidente non s’è espresso apertamente contro l’ordine esecutivo su immigrati e ingressi, affidando qualche stilettata a colleghi di partito. “New day” dei rapporti, ha detto il primo ministro turco Binali Yildrim dopo essersi sentito al telefono con il vice presidente Mike Pence, ad Ankara si pensa bene di Trump anche perché il nuovo presidente americano appare meno interessato alle dinamiche interne degli altri paesi: in altre parole, ha un approccio pragmatico, e potrebbe voltarsi davanti agli abusi sui diritti umani perpetrati dal governo turco.

QUANTO C’È DI VERO?

Non è chiaro quanto queste visioni siano una convinzione turca oppure un tentativo del governo di Ankara di fare propaganda e pubbliche relazioni (anche ad uso interno, visto i grandi cambiamenti in vista col referendum sul presidenzialismo). Sostanzialmente tutto si basa su due punti: primo, i turchi dicono che gli americani avrebbero accettato la loro offerta per procedere con un’operazione congiunta su Raqqa. Questa intesa militare partirebbe dal sostegno su Al Bab della missione Scudo, quella con cui dal 24 agosto la Turchia sta combattendo l’IS al nord della Siria (con un obiettivo contemporaneo: bloccare l’avanzata dei curdi siriani, che Ankara considera terroristi, ma che gli americani stanno utilizzando da un paio d’anni con lo stesso scopo nella stessa aree geografica). Secondo punto: i turchi sostengono che l’amministrazione Trump potrebbe essere più disponibile all’estradizione di Fetullah Gülen, predicatore politico rifugiato in Pennsylvania, che Ankara ritiene responsabile del golpe avvenuto nel luglio scorso.

GLI INTOPPI PER IL PIANO DI ERDOGAN: RAQQA…

Ci sono due elementi che non remano a favore delle convinzioni o delle pr di Ankara. Il primo: il portavoce del Pentagono il giorno seguente alla visita di Pompeo ha diffuso varie informazioni sul procedere a ritmo alto della campagna su Raqqa, la capitale dello Stato islamico in Siria. Il capitano Jeff Davis ha detto che le Syrian Democratic Force (un gruppo di ribelli curdo-arabo che gli Stati Uniti stanno utilizzando al nord della Siria e che la Turchia considera illegittimi) hanno circondato la città, piazzato i pontoni sull’Eufrate che scorre sulla fascia meridionale, e contano di stringere l’assedio in pochi settimane. Riprenderla, dice Davis, sarà fondamentale perché è lì che vengono pianificati gli attentati terroristici all’estero. Aaron Stein, ricercatore dell’Atlantic Council, spiega al New York Times: perché mai Trump dovrebbe preferire di cambiare questa strategia già avviata, che potrebbe permettergli di riprendere Raqqa nel giro di sei mesi, e aspettare il 2018 per lanciare un’offensiva con una formazione filo-turca? Il termine temporale è relativo al fatto che per il momento l’esercito turco ha inglobato nella Scudo non più di un migliaio di ribelli addestrati, e a meno che la Turchia non decida di mettere sul terreno decine di migliaia di soldati subito, Washington dovrebbe preferire la scelta più rapida, visto la frenesia con cui Trump dichiara di voler ingaggiare la lotta al Califfo. Bonus: a leggere i report dell’Operation Inherent Resolve, come gli americani chiamano la guerra anti-IS, non ci sono indicati bombardamenti su Al Bab.

… E LE DIMISSIONI DI FLYNN

Se c’era qualcuno che avrebbe potuto spingere il presidente a cambiare piano, quello forse era Flynn. E qui, arriva il secondo elemento, che riguarda Gülen. La sponda più importante che Ankara trovava nella complicata richiesta di estradizione agli Stati Uniti (complicata anche dal fatto che la sorte del chierico in mano alla Turchia sarebbe cupa), era Flynn. Il capo del Consiglio di sicurezza nazionale aveva una visione chiara sulla questione: i turchi sono nostri alleati e dunque se ci chiedono indietro un loro nemico perché lo ritengono colpevole di tradimento allo stato (lo ritengono senza processi e senza prove, per il momento), noi abbiamo il dovere di avviare subito le pratiche per l’estradizione. Finora l’idea dell’amministrazione Obama invece è stata: forniteci le prove sulle sue responsabilità e noi lo estradiamo. Ora Flynn s’è dimesso, e non è chiaro quanto l’estradizione di Gülen, e in generale il ruolo della Turchia come player regionale, sia in testa ai dossier sul tavolo dello Studio Ovale. Secondo molti osservatori quella di Trump ad Ankara è stata più che altro una telefonata di protocollo, una gesta obbligato, più che una volontà strategica.

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