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Bettino Craxi visto da Paola Sacchi

Bettino Craxi

Cosa c’è di peggio, per un giornalista, di un’intervista lungamente promessa da un interlocutore autorevolissimo e poi non concessa? Poche altre cose possono produrre una simile delusione professionale. E invece, con una combinazione ammirevole di correttezza intellettuale, sguardo politico lucido e profonda sensibilità umana, Paola Sacchi ha applicato il principio “ex malo bonum”, e ci ha regalato un piccolo libro prezioso, di valore storico e politico, in uscita in questi giorni per “Male edizioni”, con una intensa e significativa prefazione di Stefania Craxi.

I fatti. Paola Sacchi, tra il 1997 e il 1999, negli ultimi e dolorosi anni di vita di Bettino Craxi ad Hammamet, è una giovanissima giornalista de L’Unità (“il giornale dei miei assassini, anche se lei è una brava ragazza…”, le dice Craxi). In quel periodo, anche recandosi in Tunisia, Sacchi realizza lunghi colloqui informali con l’ex Presidente del Consiglio italiano, per un’intervista che non sarà pubblicata. Ma il materiale raccolto offre moltissimo, a vent’anni di distanza.

Certamente ci sono cose che già conosciamo. Cito in ordine sparso. L’attitudine modernizzatrice di Craxi, a partire dal presidenzialismo e dalla “grande riforma” istituzionale, un obiettivo lungamente indicato come necessario. L’orgogliosa difesa dell’autonomia del Psi dalle “chiese” comunista e democristiana (nel libro, è gustoso l’aneddoto di Craxi che, al termine di una riunione, trova sul tavolo un biglietto con uno “schemino” disegnato da Giulio Andreotti, riassunto nella formula “Dc+Pci”…E il Psi? Cancellato, annota mentalmente Craxi). Una visione cupa ma preveggente sul destino di questa Unione Europea (“Senza una nuova trattativa e senza nuove condizioni sarà un inferno, e non un paradiso terrestre”). E anche un lucido sguardo sul futuro: per un verso, ammonendo contro “operazioni di vertice” per costruire nuove prospettive politiche (“perché ormai la vecchia forma dei partiti è morta”), e per altro verso indicando una possibile strada, per tante ragioni difficile e impervia, quella di una collaborazione federativa tra liberali, laici e socialisti, con attenzione all’area cattolica. Tutto ciò conferma – nel consenso o nel dissenso – la statura e la visione di un leader davvero significativo.

Ma il cuore del libro sta forse in due aspetti meno conosciuti. Il primo: Craxi letteralmente si infuria – non solo si addolora – quando qualcuno pensa che lui viva una vita fastosa. Sacchi ha mano felice quando descrive la normalità della sua routine ad Hammamet, la disciplina e la costanza craxiana nel lavoro, nella lettura e nella scrittura, fino alla fine (o finché la salute glielo permette), la censura e l’ostracismo della stampa italiana rispetto agli scritti inviati dal suo fax tunisino… E ancora – e forse si tratta delle pagine più dolci e significative del libro – l’attenzione di Craxi agli ultimi, ai pescatori tunisini, e perfino ai reietti, accuratamente schivati (Sacchi scrive crudamente ma sinceramente: schifati) dai turisti italiani e dalla “buona società”, a partire da una signora divenuta – appunto – signora dopo un intervento a Casablanca, a cui Craxi bacia pubblicamente la mano, assicurandole con quell’ostentato omaggio almeno qualche giorno di saluto e rispetto dagli altri frequentatori degli alberghi e dei caffè di Hammamet.

Il secondo aspetto meno conosciuto è più politico, e meriterebbe anch’esso riflessioni sincere, di verità, in un campo che non è il mio, quello della sinistra tradizionale italiana. Craxi non tollera l’idea di essere descritto come l’uomo che ha impedito un nuovo incontro a sinistra. Sacchi qui è particolarmente efficace, onesta, chirurgica, nel mettere a fuoco dati oggettivi e incontrovertibili, che convergono con la testimonianza craxiana. È Craxi (nella sorpresa degli altri leader socialisti europei) a “sdoganare” nel 1992 il Pds, consentendo agli ex comunisti l’ingresso nell’Internazionale socialista. Eppure, prima e dopo, ha ricevuto e riceverà solo un odio feroce e incancellabile. Dopo, sotto forma di persecuzione giudiziaria, tra il lancio di monetine al Raphael e la descrizione come “latitante”. Prima, nel lungo quindicennio precedente, con un’ostilità tetragona da parte di Berlinguer e dei suoi. Berlinguer lo descrive come “un pericolo per la democrazia”, Tatò lo liquida come “un bandito politico e un avventuriero”. Craxi riflette su questo magma di rancore, sorride amaramente perfino sui miglioristi, per convinzione generale i più “moderni” nel Pci, eppure anch’essi prigionieri del miraggio della “rivoluzione, da Cuba all’Urss”. Ma, e qui sta la sorpresa, l’ultimo Craxi non ripaga tutto ciò con la moneta di un rancore uguale e contrario. Semmai, nel racconto della Sacchi, si curva empaticamente a comprendere, o a tentare di farlo. Entra perfino – senza alcuna ironia, ma con senso drammatico, forse anche tragico – nel territorio psicanalitico, evocando un Berlinguer che “non può” accettare il dialogo con lui. Il giovane Enrico, tanti decenni prima, ha deciso di divenire comunista rompendo culturalmente con una famiglia nobile, socialista, massona: un patrimonio troppo simile a quello incarnato da Craxi e dal suo riformismo… Craxi si sforza – nel dolore e con dolore – di capire, di immedesimarsi, di dare un senso al rancore di cui è oggetto.

A ben vedere, restano però spiegazioni più prosaiche per quell’odio e quell’ostilità. La prima la offre Stefania Craxi nella prefazione, citando testualmente Massimo D’Alema: i comunisti dopo la caduta del Muro “non avevano alternative, erano come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista. Come uscire da quel canyon? Avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista in Italia”. L’eliminazione di Craxi diventa “oggettivamente” necessaria nella spietata logica comunista.

La seconda spiegazione viene dalla storia: “vae victis”. C’è spesso una ferocia disumana da parte dei vincitori di un momento (anche se perdenti in prospettiva) verso chi è stato battuto. E la ferocia ha un sovrappiù di crudeltà verso chi – per merito, forza e talento – ha generato nei suoi avversari, fino a quel momento, complessi e sentimenti di inferiorità.


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