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Brexit, perché per Londra non sarà un buon affare. Report Ceps di Daniel Gros

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Il giorno della verità per il Regno Unito è arrivato. Oggi il premier britannico Theresa May invocherà l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che regola l’uscita di uno Stato membro dall’Unione europea. Un evento epocale che cade contestualmente al sessantesimo anniversario della fondazione di questa Europa che così com’è ha dimostrato ampiamente di non funzionare. E mentre i risultati elettorali olandesi hanno dimostrato che l’alternativa – ovvero la svolta antieuropeista in chiave populista – non è un’opzione, l’uscita di Londra testimonia quanto sia necessario cambiare rotta.

I NUMERI DELL’USCITA: LONDRA PERDE

Cosa succederà a partire da giovedì nessuno lo sa bene. Probabilmente nulla, visto che le trattative per uscire dall’Ue richiedono due anni. Ma a partire dal 2020 a leccarsi le ferite potrebbe essere quasi esclusivamente Londra. Questo almeno è scritto nei numeri di uno studio realizzato per il Parlamento europeo dal Ceps, il think tank di Bruxelles dell’economista Daniel Gros, secondo cui mentre “per i 27 le perdite sono per lo più irrisorie e difficili da aggregare, per il Regno Unito sono davvero importanti, dieci volte maggiori in percentuale sul Pil”. Ovvero, fino allo 0,75% annuo per l’Uk e circa mezzo punto in dieci anni per i 27 che restano uniti, con qualche differenza tra di essi, e perdite maggiori per i Paesi più prossimi a Londra, come Irlanda e Olanda.

EXPORT VERSO UE PESANTE PER UK

Le ragioni di questi numeri si spiegano innanzitutto con i dati sull’export: l’Ue esporta in Regno Unito beni per 306 miliardi, un valore pari al 2,5% del Pil, mentre i 184 miliardi che esporta Londra verso l’Ue sono pari al 7,5% della sua ricchezza. Se si aggiungono anche i 122 miliardi di servizi finanziari che prevalentemente dalla City arrivano nei 27, i conti sono presto fatti. I nuovi accordi commerciali potrebbero causare uno choc sistemico enorme e bruciare una parte importante del Pil. L’entità dipenderà appunto da che tipo di accordo commerciale sarà stilato: Londra continuerà ad avere un accesso privilegiato al mercato unico come la Norvegia? O sarà trattata come un qualsiasi Paese extracomunitario del Wto?

ADDIO SOFT O HARD?

Nella prima ipotesi la perdita per la Terra di Albione sarebbe dell’1,31% in dieci anni, nel secondo del 4,21%, per arrivare al 7,5% in caso di fuga delle multinazionali dai loro quartier generali londinesi, secondo le stime del Ceps. Fuga probabile, visto che la fine della circolazione libera di merci e persone renderebbe la vita difficile a queste multinazionali che avevano scelto Londra per la sua burocrazia snella e perché era la porta per accedere al mercato dell’Ue. Le banche internazionali a ottobre 2016, per il tramite del presidente della British Bankers’ Association (Bba) Anthony Browne avevano già annunciato che avrebbero spostato la loro sede europea altrove, già all’inizio del 2017. E sono alla ricerca di un nuovo hub per vendere i loro servizi in Europa godendo del passaporto che ora Londra perderà: Parigi, Francoforte, Berlino, e perché no, Milano, come aveva detto a Formiche.net Guido Rosa, il presidente dell’Aibe (Associazione italiana banche estere).

BUCO DI BILANCIO? ALL’UE NON FA PAURA

Quanto perde invece l’Ue dall’addio di Londra? I dieci anni una cifra di Pil irrisoria: tra lo 0,11% e lo 0,52%, sempre in base agli accordi commerciali soft o hard che Londra riuscirà a spuntare. C’è poi il problema di un buco nel bilancio europeo di 9 miliardi di euro: a tanto ammonta la quota britannica che verrebbe meno. Ma, nel caso di accordo soft, Bruxelles potrebbe ancora pretenderne almeno una parte (il Ceps stima 3,5 miliardi), in caso di accordo hard, la recupererebbe con i dazi che sono pari al 5% sul valore delle merci importate.
Insomma, questa Brexit deve far paura solo a chi l’ha voluta, i britannici.

LIBERA CIRCOLAZIONE DI PERSONE

Certo, la frangia di popolazione che voleva impedire agli stranieri di entrare e rubare loro il lavoro (o i sussidi) potrebbe essere accontentata grazie a una maggiore chiusura delle frontiere. Ma anche questa per l’economia inglese non è una bella notizia: dei cittadini dell’Ue che vivono in Regno Unito a fine 2016, circa 2 milioni su 3,35 sono lavoratori; poco più di 200mila pensionati e 600mila studenti (il resto è formato dalle famiglie dei lavoratori); al contrario degli 1,2 milioni di britannici che vivono in uno dei 27 Paesi dell’Unione un terzo sono pensionati. Anche in questo caso, in quanto a produzione di ricchezza, è evidente chi ha da perdere da una restrizione delle norme di libera circolazione.



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