Nessuno poteva immaginare sei anni fa che le cosiddette “primavere arabe” si sarebbero trasformate in un gigantesco “inferno islamista” coinvolgendo nazioni che al tempo apparivano solide e impermeabili all’aggressione jihadista. La Siria, in particolare, è stata la vittima sulla quale più crudamente si è esercitato il velleitarismo criminale del qaedismo risorto sotto la specie di Al Nusra e dispiegatosi poi nelle sembianze di Daesh, il Califfato terrorista guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Con la complicità – ovviamente negata dai media di tutto il mondo, almeno nella fase iniziale – di un Occidente che non sappiamo definire se più cieco o consapevolmente responsabile di ciò che con la sua inerzia avallava.
Fatto sta che la Siria ha sperimentato più dolorosamente di altri Paesi, e nonostante tutto ancora prova a difendersi come può – scontando la solita imperizia o indifferenza occidentale, in particolare europea – una disumana guerra di conquista che ha fatto centinaia di migliaia di morti, ha provocato la distruzione di una composita comunità nazionale, ha visto cadere le proprie città con i simboli delle culture e delle religioni che custodivano, ha pianto da sola il genocidio che ha dovuto sopportare e lo smembramento del suo territorio sicché risulta difficile oggi immaginare quali possano essere i confini.
È il vecchio piano di uno sgherro qaedista che è andato ben oltre Al Qaeda, utilizzandone le risorse e i legami, per portarlo avanti e porre le basi di Daesh: il giordano Abu Musab al-Zarqawi, rimasto ucciso nei bombardamenti americani nel 2006 in Iraq. Un piano ambizioso che prevedeva appunto la nascita del califfato dalla dissoluzione della Siria e dell’Iraq, il grande Stato islamista del Levante, insomma, che avrebbe in seguito dovuto lanciare la sfida a quell’Occidente che si voltava nel frattempo dall’altra parte e i cui sofisticati analisti e gli incapaci politici non riuscivano a vedere ciò che a Bashar Al-Assad, per esempio, era fin troppo chiaro: la “colonizzazione” del suo Paese da parte degli islamisti per attuare il progetto che nell’area faceva proseliti.
E il proselitismo lo subiva l’Iraq, ma anche e soprattutto la Siria dove le proteste, sull’onda del successo pilotato dall’Occidente delle “primavere arabe”, prendevano piede in nome della libertà (manco a dirlo) e della difesa dei diritti civili. Nessuno si accorse che l’attacco al potere di Damasco non veniva portato dai tradizionali oppositori del regime di Assad, ma da radicali islamici estranei perlopiù alla società siriana che non si tardò a scoprire legati a “centrali operative” e strategiche risiedenti a Doha e a Istanbul.
La verità, come si dice adesso, è stata la prima vittima in Siria. E si tiene conto di quel che è accaduto, non si può che essere d’accordo con quanti hanno sostenuto che in Siria appunto si sta sperimentando un conflitto globalizzato che ha molti soggetti in campo ed un solo obiettivo: annientare definitivamente uno Stato a vantaggio non soltanto dei neri jihadisti che hanno strumentalizzato l’Islam non solo per costruire un fantomatico Califfato, ma per favorire i burattinai che stanno dietro di esso, dall’Arabia Saudita al Qatar, al Kuwait all’ambigua Turchia.
Per decifrare il “gioco mediorientale” il cui epicentro è quella vasta e tormentata regione che va dal Mediterraneo alla Mesopotamia, Randa Kassis e Alexandre Del Valle hanno studiato a fondo ciò che sta accadendo e ci forniscono le prove inconfutabili di un crimine che nella storia contemporanea non ha precedenti. Comprendere il caos siriano (D’Ettoris editori, pp.387, euro 22,90) è un saggio che chiunque dovrebbe leggere per capire non soltanto la tragedia siriana, ma soprattutto il preordinato disegno del terrorismo jihadista ai danni dell’Occidente “crociato” e in particolare dell’Europa sotto attacco da almeno due anni con gli attentati sanguinosi in Francia, in Belgio, in Germania che non hanno aperto gli occhi, fanno capire gli autori di questo autentico reportage nelle viscere del male, ai governanti delle democrazie più impotenti dalla fine della Seconda guerra mondiale.
La Kassis, già membro del Consiglio nazionale siriano, dal quale si dimise nel 2012, a causa delle componenti islamiste eterodirette, fondatrice del Movimento per una società pluralista, e Del Valle, geopolitico e polemologo di gran fama, studioso del terrorismo islamico, indagatore della cristianofobia e critico del “complesso occidentale”, osservano come nessuna via d’uscita sarà possibile in Siria fino a quando Europa e Stati Uniti – gli sponsor delle famigerate “primavere” – continueranno a escludere dalla concertazione mondiale la Russia, l’Iran e lo stesso regime di Damasco del quale, dicono, non è solo “parte del problema”, ma anche della “soluzione” al problema stesso.
Insomma, per ragioni che ci sfuggono, le democrazie minacciate quando non direttamente attaccate, non capiscono che il nemico non è Assad, dal quale la società civile siriana (oppositori tradizionali compresi) si sente rappresentata in questo frangente e perfino i cristiani sono con lui, alawita, solidali, ma il totalitarismo islamista che muove verso Occidente sia attraverso un proselitismo neo-imperiale finanziato dai regimi sunniti del Golfo creando “insediamenti” in Europa, sia con l’arma micidiale del jihad globale che attua forme di terrorismo estremo. E questa incomprensione è spaventosa. L’effetto che produrrà sarà quello di alimentare il “caos siriano” ai danni di una nazione un tempo solida e amica dell’Occidente, oggi abbandonata per fallaci calcoli geopolitici che favoriscono soltanto i nemici della libertà.
La speranza, argomentano nel loro dettagliato e pregevole studio la Kassis e Del Valle, è riposta nella presa di consapevolezza che le masse arabo-musulmane prendano coscienza che l’Islam politico “non è obbligatoriamente più virtuoso delle dittature nazionaliste o dei valori occidentali tanto aborriti”. E di conseguenza si regolino nell’avversare gli impostori jihadisti. Forse i recenti rovesci subiti da al-Baghdadi non sono estranei a questa speranza.
Ma il wahabismo, la corrente religiosa che anima sostanzialmente Daesh e i suoi miliziani, strategicamente non tenterà di egemonizzare quanto più possibile il mondo arabo-musulmano in assenza di poteri forti statuali nelle nazioni indebolite dalle “primavere arabe”? È questo l’interrogativo che inquieta leggendo il brillante saggio di Sebastiano Caputo, Alle porte di Damasco (Circolo Proudhon, pp. 130, euro 11), nel quale la radiografia di quanto è accaduto in Siria negli ultimi sei anni è assolutamente puntuale e ricca di valutazioni effettuate grazie a una attenta ricognizione politica “sul campo”. Dalla quale emerge il ruolo che potranno avere al “tavolo della pace” a Ginevra le cosiddette “opposizioni patriottiche” che in un primo momento avevano parteggiato per le “primavere arabe” distaccandosene quando hanno capito che esse preludevano alla dissoluzione del potere centrale e, dunque, del Paese.
In accordo Assad, protagonista fondamentale della pacificazione, e le “opposizioni patriottiche” potranno favorire il passaggio alla normalità che significa essenzialmente il controllo del territorio soprattutto nelle parti mutilate dall’Isis. Una questione di sovranità che si pone al centro di qualsivoglia trattativa che ristabilisca i confini segnati dagli accordi Sykes-Picot.
Nella postfazione al libro di Caputo, l’inviato di guerra Gian Micalessin (uno dei pochissimi osservatori occidentali che non si è piegato nel raccontare la guerra siriana alla propaganda dei nemici di Assad), ha scritto: “Chi ha subìto la repressione, chi ha fatto la guerra sotto Bashar Assad e suo padre non sta con i nuovi oppositori, non ci parla, si guarda bene dal frequentarli, invita a rifiutare soluzioni venute dall’estero. Dunque i tradizionali nemici di Bashar Assad non partecipano alla cosiddetta rivoluzione”.
Del resto, come ricorda Caputo, nel 2011, l’anno prima che tutto cambiasse, il presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano effettuò un viaggio di Stato a Damasco esperimento il suo apprezzato “per l’esempio di laicità e di apertura che la Siria offre in Medio Oriente e per la tutela delle libertà assicurate alle antiche comunità cristiane qui residenti”. Che cosa è cambiato un anno dopo? La risposta è complessa e i libri citati possono offrire qualche risposta.
Anche chi scrive, visitando la Siria nell’autunno del 2008, soltanto quattro anni prima dell’esplosione della “crisi” trasformatasi in guerra, ebbe la percezione di un Paese sostanzialmente solido, impermeabile a sussulti che si avvertivano altrove nell’area, coeso abbastanza intorno al suo presidente. Dall’incontro con le autorità di Damasco, al netto delle preoccupazioni tradizionali serpeggianti in Medio Oriente, aggravate dagli esiti della guerra irachena, nulla lasciava presagire che il jihadismo avrebbe fatto irruzione in una società ordinata.
Intrighi diplomatici, oscurantismo, corruzione e complicità affaristiche tra Occidente e regimi arabo-musulmani, oltre all’inconciliabilità tra sunniti e sciiti, hanno gettato la Siria nel caos. E il caos è dilagato nel mondo. Perché la guerra segue i destini della globalizzazione. Damasco è più vicina di quanto possiamo immaginare.